Lunedì, 11 Settembre 2017 17:09

L'Aquila e la rivoluzione fallita della festa di Piedigrotta: due giorni di scontri vinti dai borbonici

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Chissà cosa avrà pensato sua altezza reale Ferdinando II quando lo informarono dell'insurrezione aquilana del 1841?

Genero di Vittorio Emanuele I di Savoia, vedovo da un lustro, il pingue e bigotto sovrano contava allora poco più di trent'anni, undici dei quali già trascorsi sul trono delle Due Sicilie, cioè alla testa dello Stato più esteso, più popoloso, più prospero e industrializzato d'Italia. Stato ben provvisto anche dal punto di vista militare, il regno non aveva gran che da temere da parte di nemici esterni, collocato com'era - diceva lo stesso Ferdinando - «fra l'acqua santa e l'acqua salata».

Diverso il discorso per i nemici interni: un'aristocrazia fellona, una burocrazia corrotta, una borghesia inetta, il serpeggiare del separatismo siciliano, ma soprattutto l'azione incessante della carboneria che chiedeva buon governo, riforme e «ordinato reggimento».

Dopo i fatti di Palermo, Napoli, Penne e Catania, era la quinta volta (la seconda in Abruzzo) che il suo regno era scosso da una rivolta, per di più in quella che per rilevanza amministrativa, per popolazione e per posizione strategica, era annoverata tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real liceo degli Abruzzi, L'Aquila vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, che la vide protagonista anche nella travagliata storia del nostro Risorgimento.

Tutto era iniziato l'8 settembre, data oggi evocativa di ben altri sfasci, ma all'epoca coincidente con la famosa festa di Piedigrotta, celebrata fra l'altro nella Capitale con una grande parata militare alla quale partecipavano anche reparti del presidio dell'Aquila.

Trovandosi dunque la città pressoché sguarnita di truppe, si ritenne giunto il momento propizio per un'insurrezione preceduta da un lungo lavoro organizzativo e pensata come capace di provocare un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica.

Intorno alle ore 22 l'uccisione del comandante della piazza, il colonnello Gennaro Tanfano (lo spietato repressore della recente rivolta di Penne) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagnolo, dà il segnale all'insurrezione.

Euforici per la riuscita dell'agguato, una cinquantina di patrioti confluiscono nella casa-arsenale dell'armiere Romualdo Palesse, dove prelevano fucili e munizioni. Da parte degli insorti è stata appena conquistata porta Rivera, da dove sarebbero dovuti entrare in città alcune centinaia di rivoltosi provenienti dai centri vicini, e si sta organizzando la liberazione di tutti i prigionieri politici, quando il giovane sarto Giovanni Franciosa esce di casa issando su un'asta una bandiera tricolore da lui stesso confezionata, la cui vista moltiplica nei ribelli la voglia di battersi.

Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre pattuglie di insorti e di gendarmi (cui dà man forte una guardia civica costituitasi per l'occasione) si affrontano al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco, fino al rientro delle truppe che si erano momentaneamente assentate. La loro tempestiva azione repressiva, insieme alla mancata sollevazione di altre province del regno, porta al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Nonostante l'ispirazione mazziniana, la rivolta è stata condotta infatti senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garantire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze.

Quando in città entrano i rinforzi borbonici provenienti da Sulmona, si contano i morti e i feriti di entrambe le parti rimasti sul terreno. E l'Intendente conte Gaetani può diramare una circolare nella quale si legge: «I pacifici abitanti di questa città, costernati da prima per tale misfatto e pel conflitto su accennato hanno mostrato tutto l'attaccamento al nostro Sovrano». Iniziava così la normalizzazione all'insegna delle consuete «tre F» borboniche (Forca, Feste e Farina).

Le perquisizioni e gli arresti successivi portano all'incriminazione di 192 persone, in prevalenza artigiani, e comunque quasi tutti appartenenti al ceto popolare urbano, che avevano sperato in un'abolizione dei pesi fiscali e nella diminuzione del prezzo del sale. Ma nella rete della polizia cade anche il ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommossa, costituito invece da una sparuta pattuglia di notabili colti, tra i quali spicca lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella. Le indagini, svolte dalla Procura della Gran Corte Criminale, metteranno a nudo l'intera regia della sommossa, costituita dal suddetto Ciampella, nonché dal patrizio Luigi Falconi, dal marchese Luigi Dragonetti, dal barone Giuseppe Cappa e da Pietro Marrelli.

Non furono loro, però, a pagare il prezzo maggiore. Il processo, svoltosi in varie fasi in un ampio locale della fortezza spagnola fino al settembre 1842, si articolò nella pubblica deposizione di circa 1.500 testimoni e si concluse con otto condanne a morte (tutte a carico di artigiani o popolani), tre delle quali eseguite per esplicita volontà del re e le restanti commutate in ergastolo.

La mattina del 21 aprile 1842 i diretti responsabili dell'uccisione del Tanfano, a piedi nudi, vestiti di nero e con un cartello da «uomo empio» sul petto, vennero moschettati sugli spalti della fortezza. Altri 90 insorti furono invece condannati a pene detentive che variavano dall'ergastolo, a 30 o 25 anni di bagno penale, fino alla libertà vigilata.

Di contro, i gentiluomini borghesi (professionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla repressione del moto furono ricevuti in udienza dal re e da lui insigniti di medaglie e altre decorazioni. Forse anche per questo la città dell'Aquila - a differenza di Penne o di Siracusa - non fu punita dai Borboni, potendo mantenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all'Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte.

Si dirà che, nonostante il suo fallimento, lo sporadico moto dell'Aquila abbia ispirato la sfortunata azione calabrese dei fratelli Bandiera del 1844 e sia stato «germe in potenza di quelli più complessi, meglio organizzati del '48 e del '59» (Luigi Manzi, 1893).

Il fatto singolare dell'intera vicenda è però che una città che nel 1841, unica in Italia, aveva espresso un moto di notevole rilevanza, sette anni dopo si presenterà con sorprendente titubanza all'appuntamento con la «primavera dei popoli». Quando infatti nel maggio 1848 il re con un colpo di mano scioglierà il parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell'Aquila, il siciliano Mariano d'Ayala, tenterà di difendere la Costituzione senza poter contare su alcun appoggio cittadino contro l'esercito accorso in forza da Napoli (storia di ordinaria repressione rispetto allo spietato cannoneggiamento di Messina che varrà al giovane sovrano il noto appellativo di «re Bomba»).

Evidentemente il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del '41, mentre il notabilato borghese persisteva in quella linea gattopardesca che gli aveva garantito la sopravvivenza nell'ultimo travagliatissimo secolo e che gli permetterà, all'indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Non a caso sarà proprio l'avvocato aquilano moderato Giuseppe Pica a dare il suo nome alle durissime leggi per la repressione del brigantaggio.

* Walter Cavalieri è uno storico aquilano. Questo articolo è comparso originariamente l'11 settembre 2010 sul Corriere della Sera. Ringraziamo l'autore per la gentile concessione.

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