Uno striscione bianco, la scritta in stampatello con i colori delle bandiere di Italia e Francia: "Noi aspettiamo di inaugurare le scuole, altro segno di rinascita", il messaggio. A portarlo con sé, alcuni dei bambini e delle bambine delle elementari che, stamane, hanno partecipato alla 'Festa della Rinascita', in occasione della riapertura della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, le Anime Sante per gli aquilani.
Sia chiaro: oggi era giusto festeggiare. A quasi dieci anni dal terremoto, con le difficoltà quotidiane che ancora caratterizzano la ricostruzione della città, lontanissima dal potersi dire conclusa, c'è bisogno di giornate che parlino il linguaggio della speranza, che raccontino di obiettivi raggiunti, che diano il senso di un percorso che si sta compiendo, stante la sensazione di stanchezza che si percepisce a L'Aquila, inutile nasconderlo, di diffusa insoddisfazione, come se un velo di malinconia fosse calato sulla città, per ciò che era e ancora non è. E poi, è vero: prima del terremoto, la Chiesa di Santa Maria del Suffragio non era affatto cara agli aquilani, alla maggior parte di loro, almeno. Anzi. Tuttavia, il potere evocativo dell'immagine televisiva, la forza distruttiva del terremoto che squassa la cupola, l'ha resa un simbolo della tragedia aquilana, ed è altrettanto simbolica e carica di significato, dunque, la riapertura. Ben venga la festa, insomma, ben vengano i palloncini liberati in aria, la presenza del Presidente della Repubblica, i messaggi di speranza conditi da un poco di retorica.
Quello striscione bianco, però, i bambini e le bambine che lo portavano con sè, hanno avuto il pregio di smorzarla, la retorica: "sì, oggi festeggiamo", sembravano dire con i loro sorrisi e i palloncini in mano, "ma la rinascita è lontana, c'è ancora tantissimo da fare". E il messaggio è arrivato dalla generazione del terremoto, dai nati a cavallo tra il 2009 e il 2010, da coloro che dovranno davvero farla rinascere L'Aquila e che non l'hanno mai conosciuta per come la ricordano i loro genitori. "Dalla prima elementare siamo in un Musp - le parole di un bambino ai microfoni del Tgr Rai - non siamo mai andati in una scuola vera, sempre in una scuola provvisoria. Anche all'asilo, sempre in un Musp. Sarebbe ora...".
"Sarebbe ora,..", una frase lasciata a metà e che dovrebbe scuonare come uno schiaffo per le Istituzioni.
In queste settimane, ho avuto modo di leggere alcuni temi scolastici di ragazzi e ragazze in età adolescenziale, di 14 o 15 anni; ne avevano 4 o 5, all'epoca del terremoto. Ebbene, pensano alla città con malinconia, rimpiangendo tempi che non hanno mai vissuto. E' chiaro, hanno assimilato i sentimenti dei loro genitori; è altrettanto evidente, però, che stretti dal ricordo del passato e dalla speranza per il futuro, ci si sia dimenticati del presente, di quei ragazzi che un passato da cittadini non ce l'avevano, che il futuro non erano in grado ancora di immaginarlo, e che avevano bisogno piuttosto di un presente fatto di normalità, per quanto possibile, di un legame con la città che non hanno potuto stringere. Che cittadini saranno, domani? Che affezione avranno per il loro luogo di nascita?
Di loro, ci siamo dimenticati. Abbiamo compiuto il gravissimo errore di non pensare alla loro quotidianità come questione primaria per il futuro, di non restituirgli una normalità che doveva passare, necessariamente, dalle scuole, il luogo di formazione dell'individuo, il primo spazio di socialità e di costruzione di un senso comunitario. A dieci anni del terremoto, non c'è neanche una scuola comunale ricostruita: la prima che verrà restituita agli studenti sarà la 'Mariele Ventre' di Pettino, ad inizio 2020 da progetto; saranno passati 11 anni dal terremoto. Due intere generazioni avranno frequentato le scuole elementari nei Musp, e altri resteranno ancora a lungo in una provvisorietà che segnerà gli anni più importanti della loro vita.
"Sarebbe ora...", le parole innocenti, e pure diritte come una lama, che dovranno segnare la giornata di oggi, una giornata di festa che deve restituirci, però, la consapevolezza che parlare di rinascita ha senso per chi L'Aquila l'ha vissuta prima del terremoto, non per le bambine e i bambini che sono venuti dopo, che non hanno un passato da rivivere malinconicamente e un futuro da immaginare compiutamente ma soltanto la quotidianità di una vita che sta prendendo forma, a cui non abbiamo prestato la giusta attenzione.
Che serva a questo, la 'Festa della Rinascita'.