Giovedì, 08 Agosto 2019 12:51

Viaggio tra i capolavori italiani: Montanari racconta il Guerriero di Capestrano

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Lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha deciso di raccontare sul Fatto Quotidiano alcuni capolavori italiani nell'ombra, offrendo tre consigli di viaggio, uno al nord, uno al centro e uno al sud, per chi volesse percorrere il nostro Paese, fuori dalle rotto autostradali o da quelle dei voli. Per perdersi in Italia, "nel suo tessuto così familiare, e insieme così poco noto": d'altra parte, camminare l'Italia - scrive Montanari - significa viaggiare nel tempo, conoscere mondi perenti, sbirciare oltre la soglia del futuro. Perché, come ha capito Carlo Levi, 'forse è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il Paese dove si realizza, in modo più tipico e diffuso e permanente che altrove, la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto, tutto è nel presente. Ogni albero, ogni roccia, ogni fontana contiene dentro di sé gli dei più antichi. L’aria e la terra ne sono impastate e intrise. Con gli Dei, gli uomini e i loro fatti: sui selciati delle strade, sugli asfalti delle automobili, risuona l’eco di passi innumerevoli. Il macellaio del Ghetto di Roma è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana; il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’opus reticulatum e i rocchi di colonne del Teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde'".

Ebbene, il viaggio di Montanari passa da Chieti, dal Museo archelogico nazionale, alla scoperta del Guerriero di Capestrano, in lotta dal VI secolo.

Così lo racconta.

"Lasciamoci alle spalle ciò che è più noto e amato: 'le trepide città dove l’Appennino profuma più umano nelle cesellate siepi, tra i caldi arativi della Toscana, o dove più selvaggio le vecchie pievi assorbe nell’etrurio – s’allontanano sull’ala dei vergini, chiari suoni serali' (così Pasolini, nel 1951). E fermiamoci a Chieti, Abruzzo. Qui, nel Museo archeologico nazionale (nazionale: a ricordarci che siamo nazione soprattutto qua, nel patrimonio e nel paesaggio: con legami che nessuna autonomia differenziata dei cementificatori, leghisti o piddini, può spezzare) c’è la figura monumentale più antica dell’arte italiana: meta del VI secolo prima di Cristo.

Il Guerriero di Capestrano è indimenticabile, se lo si vede dal vivo: spalle e fianchi larghissimi, statura pazzesca (oltre due metri) contraddetta dallo spessore di sogliola (circa 30 centimetri), che ci ricorda che questa statua era in realtà una stele funeraria, piantata nella necropoli di Aufinum (appunto a Capestrano, provincia dell’Aquila).

L’ascia, la spada, il pugnale: un’intera panoplia riveste il nostro guerriero, armato fino ai denti e protetto da una maschera per calarsi nel buio di una notte sconosciuta, la morte.

Quell’improbabile sombrero, quelle borchie sul corpo nudo: è davvero estraniante la vista di questo eroe da bondage messicano. E tanto più doveva esserlo quando il colore ancora ricopriva la sua statua.

Ma chi era, in realtà, il nostro guerriero? Una lunga iscrizione in lingua picena, scritta da destra a sinistra (come l’ebraico, o i fogli di Leonardo), tramanda probabilmente il nome dello scultore o del committente (“Aninis”?), e almeno parte di quello del protagonista (“Pomp.”). Ma forse non è l’identità dell’eroe la questione più affascinante che la statua presenta alla mente dei suoi visitatori. Essa ci parla di un’Italia remotissima, eppure ancora presente per segni e oggetti (come dimenticare la testa di guerriero trovata a Numana, e oggi al Museo non meno Nazionale delle Marche, ad Ancona?): l’Italia dei Piceni, che conosceva bene i contemporanei, elegantissimi Kouroi attici (due ne sono stati trovati a Osimo, e oggi sono a Firenze), ma sceglieva orgogliosamente uno stile proprio, diverso ed eloquentissimo nel suo ostentato carattere, per così dire, anticlassico.

Un’Italia centrale già allora in dialogo con il mediterraneo intero, dunque: ma gelosamente capace di costruire modelli estetici lontani dal mainstream, e ad esso anzi alternativi.

Come doveva essere quell’Italia del VI secolo avanti Cristo, con il suo paesaggio che è ancora in gran parte il nostro, in una sovrapposizione continua che rende ogni nostro gesto come la mossa di un ballo a cui partecipano legioni di invisibili compagni?

Un’architettura e una figura, una valle e una piccola città di provincia". 

Ultima modifica il Giovedì, 08 Agosto 2019 13:51

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