di Michela Speranza - Di nuovo la guerra.
Per chi, come me, non ha avuto occhi attenti negli ultimi decenni e ha scoperto solo di recente il Donbass, sembra di essere piombati in un incubo.
È infatti innegabile che il conflitto alle nostre porte ci ha “stravolti”, coinvolgendoci profondamente. Al netto della cronaca degli avvenimenti sull’evoluzione bellica, sento la necessità di fare una riflessione e di metterla nero su bianco, allo scopo dichiarato di chiarirla, anche a me stessa.
Sono cresciuta con i valori “europei”. Quelli menzionati nella Costituzione italiana e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e poi nella Carta di Nizza. Sono valori che sento miei, che condivido, che avallo e che propugno. Uomo al centro e tutela dei diritti fondamentali; Stato di diritto, democrazia partecipativa, libertà di autodeterminazione dei popoli e così a cascata.
L’elencazione quasi didascalica è la premessa necessaria per il proseguo. Perché è chiaro che io sia per la pace. Non ci sono dubbi al riguardo.
Ciononostante, nell’odierno dibattito, proprio su questo crinale, vedo posizioni che reputo ambigue.
Occorre prima, tuttavia, sgombrare il campo: la riflessione che vorrei portare avanti riguarda l’oggi; guarda cioè all’attuale situazione concreta. Ciò non vuol dire che le indagini storiche sul come e sul perché si sia arrivati al conflitto non siano fondamentali, alla stregua delle valutazioni prognostiche. Sono tutte necessarie, ma sono su un altro piano.
Mi piacerebbe, infatti, a costo di essere tacciata di superficialità, fotografare il momento. La dinamica bellica è chiara a tutti: c’è un aggressore e c’è un aggredito. Nel mezzo ci sono le atrocità che scorrono costantemente sotto i nostri occhi. Dunque – perché le cose, in fondo, vanno ridotte all’osso – io sono per la pace e c’è una guerra. Preciso: sono in generale per la pace ma c’è un conflitto concreto, vero, reale, qui vicino. E mi chiedo come si possa conciliare tutto ciò.
Perché siamo onesti: vanno bene gli aiuti umanitari e l’accoglienza ma qui c’è un Paese che sta resistendo con le unghie e con i denti, che vuole farlo a costo della vita e che ci chiede aiuti militari.
A questo punto, l’obiezione principale è che bisogna essere cauti. Questa cautela viene poi attuata, declinandola in vari modi ma, di massima, si pongono dei limiti perché il terrore è l’escalation e il rischio è alto. Mi sembra un’opinione ragionevole, anzi – con il cuore in mano – mi pare la migliore.
Si deve, quindi, lavorare sulla diplomazia. Giusto.
Queste, le tesi sul tappeto che mi consentono di arrivare al fulcro della questione, a ciò che ho anticipato reputare una posizione ambigua. Mi soffermo su chi oggi propugna la pace come unica strada e basta. C’è stata di recente una manifestazione a Roma in cui si “condannava l’aggressione”; si “chiedeva il cessate il fuoco” e “il ritiro delle truppe”; si auspicava l’intervento conciliatore dell’Onu sul fronte dei negoziati. Dietro questa posizione, tra gli altri, c’è un partito che siede in Parlamento, ci sono importanti sigle sindacali e ci sono singole persone.
Va benissimo. Eppure, qualcosa non torna.
Posto che, in astratto, siamo tutti d’accordo, ad una analisi più accorta mi sembrano palesemente delle petizioni non attuabili. Sono utopiche, irrealistiche. Appaiono, se calate nella concretezza di questa guerra (che nel mentre va avanti), quasi una presa in giro.
Allora va bene essere per la pace come unica strada ma forse si dovrebbe simultaneamente pretendere onestà intellettuale da parte di chi sente di aderire a questa impostazione, me compresa. Perché essere “contro ogni guerra” – e basta – non basta. Implica un precipitato ineluttabile: si sta dicendo al popolo ucraino di sbrigarsela da solo, almeno sul campo. Ancora, gli si sta consigliando, velatamente, di arrendersi, di lasciar perdere, di accettare quello che verrà, così da tentare almeno di salvare qualche vita innocente in più.
Il prezzo sarà la libertà, l’identità del popolo con il suo territorio, lo Stato di diritto, la tenuta democratica del Paese. Tutti valori che lì magari si atteggiano diversamente rispetto a qui ma che, non per questo, non meritano tutela. In conclusione, dalle nostre tiepide case, credo che un briciolo di coraggio sia necessario mostrarlo.
Chi oggi è per la pace tout court ha il dovere morale di affermare: “Ucraina non resistere”. E deve farlo consapevole di essere, in larga percentuale, cresciuto sulle fondamenta della resistenza antifascista, di aderire a quei valori e di scendere in piazza cantando “Bella ciao”. Forse, così, si può quantomeno ipotizzare una composizione della sintesi dell’attuale dibattito.
di Michela Speranza