di Valerio Valentini - Quando i tre squilli della campanella arrivarono a segnalare l’allarme di evacuazione immediata, ci guardammo tutti in faccia, interdetti. Era l’ora di religione, e come al solito, insieme al nostro don Luigi, ci trovavamo impelagati in una discussione sui massimi sistemi: una delle poche attività scolastiche che meritavano di non essere interrotte. Fuori dalla finestra, la neve. Era il 13 febbraio, e a L’Aquila quella era una tipica mattina di strina: un vento secco e gelido che taglia la pelle e rende deserte le strade. Ma davvero dovevamo uscire? «Restiamo qui – sorrise don Luigi – finché non ci vengono a chiamare». «Del resto voi preti siete raccomandati, no? Siete immuni dalle catastrofi naturali» – scherzammo.
Si trattava solo di un’esercitazione, o c’era stata una scossa? Qualcuno diceva di averla avvertita. «Ma perché io non la sento mai? Gli sto antipatica, al terremoto?» – si lamentò una nostra compagna. Sentivamo il rumore dei banchi spostati nelle classi vicine, un vociare scomposto che si riversava nel corridoio. Dopo qualche minuto, il bidello venne ad avvertirci che sì, dovevamo davvero abbandonare l’edificio.
Chiudemmo gli zaini, prendemmo sciarpe e cappotti. Sulle scale ci ritrovammo accalcati, e in quattro o cinque cominciammo a urlare: «Quella che avete sentito non era la campanella, ma la tromba degli angeli dell’Apocalisse. Moriremo tutti: pentitevi, la fine è vicina!». Qualche professoressa ci rimproverò per il nostro cattivo gusto, una nostra compagna ci interruppe perché rischiavamo di portare sfiga. Ma perlopiù si rise.
Il punto di raccolta, piuttosto improvvisato, fu Piazza Palazzo, a pochi passi dalla nostra scuola. Senza capire bene se il terremoto ci fosse stato davvero oppure no, ci mettemmo a giocare a palle di neve, prendendo di mira anche qualche professore e le telecamere della troupe di una TV locale che chiedeva agli studenti le loro «prime impressioni». Dopo circa mezz’ora, venne annunciato il rientro in classe.
Pochi giorni fa, mi è capitato di rivedere il video che alcuni di noi girarono col cellulare quella mattina, cercando di scoprire le reali cause della scossa: una professoressa caduta per le scale o, magari, un nostro compagno andato al gabinetto dopo una digestione problematica. E mi sono ritrovato a pensare a quello stato di vaga, intorpidita incoscienza con cui – come dire? – scivolammo lentamente verso il 6 aprile 2009.
Ci sono degli episodi ben definiti, della settimana che precedette la notte in cui L’Aquila fu distrutta, che scandiscono i ricordi di tutti i suoi abitanti, oggi: come se quegli ultimi giorni rispondessero a un tempo diverso, solo nostro. Se provate a chiedere a qualsiasi aquilano, vedrete che per tutti quella settimana ha inizio lunedì 30 marzo, poco prima delle quattro di pomeriggio. Una scossa di magnitudo 4.0, violenta come nessun’altra mai nei mesi precedenti, segna l’entrata in una nuova dimensione. In migliaia corrono in strada, sia in centro sia nei quartieri e nei borghi di periferia. Piazza Duomo resta gremita di gente per ore, alcuni decidono di passare la notte in macchina.
Ne ho riparlato recentemente con mia cugina, di quel lunedì. Mi ha raccontato che stava studiando nella biblioteca comunale, e che quando tutto cominciò a tremare solo in due persone si ripararono sotto i tavoli. «La sala si svuotò in un attimo, tutti ammassati nell’atrio. Quando la scossa finì, mi tirai su, e vidi sopra alcuni banchi i calcinacci che erano caduti dal soffitto. Fu lì che, per la prima volta, pensai che davvero potevamo morire per il terremoto, in qualunque momento».
Eppure io credo che questa consapevolezza, in quei giorni, rimase inespressa. Semmai, si materializzò come una paura indefinita, uno sorta di rumore di fondo che non ci liberava mai, ma neppure prendeva il sopravvento, se non in accessi estemporanei. E forse era una paura così annichilente, a volerla prendere davvero sul serio, che alla fine chiedeva essa stessa di essere silenziata. Bastava così poco per essere rassicurati, dopo tutto.
Il sindaco ordinò la chiusura di tutti gli edifici scolastici, così da permettere ai tecnici del comune di effettuare i collaudi e verificare l’agibilità delle strutture. Tranne un paio, tutte le altre scuole, anche quelle dove le scosse delle ultime settimane avevano aperto piccole crepe nei muri, staccato i battiscopa o pezzi di intonaco dalle pareti, vennero riaperte due giorni dopo. La nostra professoressa di biologia, aveva dato anche lei il suo responso positivo: Palazzo Quinzi, la sede del nostro liceo classico “Domenico Cotugno”, era una struttura di provata stabilità, essendo del resto brillantemente sopravvissuta al catastrofico terremoto del 1703.
Mercoledì 1 aprile fu il giorno del nostro viaggio d’istruzione. Classe II D, nessun professore che avesse accettato di farci da accompagnatore per una gita vera e propria: la nostra condotta, quell’anno, non era stata esemplare. Fu proprio don Luigi l’unico a dichiararsi disponibile, ma la sua offerta prevedeva una clausola che non era contrattabile: tutti a Piazza San Pietro ad ascoltare l’udienza del Papa. Nel piazzale di ritrovo, vicino alla stazione ferroviaria, dovemmo aspettare un nostro compagno, il ritardatario di turno. «Scusate – si giustificò finalmente al suo arrivo – ma ho staccato la sveglia e mi ero quasi riaddormentato. Per fortuna il terremoto mi ha tirato giù dal letto definitivamente». «Io ero sotto la doccia – replicò don Luigi – quando ha fatto. Mi sono detto: scappo di casa nudo e insaponato? Alla fine ho preferito risciacquarmi».
Venerdì 3 aprile, compito in classe di latino. Dopo una ventina di minuti dalla distribuzione dei fogli, alcuni di noi avvertirono una scossa. «È il terremoto, professorè!». Per alcuni secondi nessuno disse niente. Poi le porte delle altre classi si aprirono: gli insegnanti si scambiarono delle rapide occhiate in corridoio. «Che facciamo?» – domandammo, a metà tra il solito spavento e la speranza di annullare la verifica. La professoressa ci bloccò: era solo una scossa, non era successo niente. Alcuni accennarono una protesta. «Ma insomma, la smettete? – ribatté lei – E se foste vissuti in Giappone, dove scosse come queste sono all’ordine del giorno, mi dite come avreste fatto?». Il compito di latino andò avanti.
La nostra professoressa non era un’irresponsabile. Tutt’altro. Quella mattina nessun insegnante ritenne opportuno far uscire la propria classe, il preside non ci pensò neppure ad evacuare l’edifico. E del resto, nelle ultime settimane, anche noi studenti avevamo cominciato a vedere nell’isteria sottaciuta che andava diffondendosi, un alleato per movimentare le lezioni, e magari farle sospendere. Ci si metteva d’accordo per far muovere i banchi tutti nello stesso momento. All’improvviso un paio di noi urlavano «eccolo, di nuovo». Avevamo scoperto che i solai del nostro liceo erano, diciamo, ballerini: se qualcuno saltava nei corridoi, le porte delle aule scricchiolavano, in alcuni punti i pavimenti tremolavano. E noi, ogni tanto, saltavamo. I professori dovettero accorgersi di tutto ciò, e cominciarono a mostrarsi più diffidenti verso i nostri timori.
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di Valerio Valentini