Musica antica e dintorni

Musica antica e dintorni (21)

L’articolo del blog che vi propongo in questo appuntamento non avrà come argomento codici, manoscritti o autori musicali ma si occuperà di un luogo in cui la Musica è protagonista attraverso i suoi strumenti musicali, componenti essenziali per potere godere ed apprezzare pienamente le esecuzioni vocali e strumentali. La parola scritta, infatti, può narrare ed analizzare anche il più piccolo dettaglio di una composizione, ma non potrà mai restituire ciò che l’esecuzione musicale produce in colui che ascolta che, se generalmente presenta spesso caratteri di universalità, è tuttavia sempre diverso per ognuno, a seconda della propria percezione e del proprio vissuto.

Il luogo di cui voglio raccontare è la Torre del Cassero di Porta S. Angelo di Perugia. Il website comunale ci informa che è “la più grande delle porte medievali, fortificata da Ambrogio Maitani nel 1326, e si apre nella cinta muraria del XIV sec”. Il secondo livello fu costruito per volere del legato pontificio Gherrado du Puy, Abbate di Montmajeur de Cluny (Abbate di Monmaggiore), in seguito sarà trasformata in cassero con botole e feritoie nel 1479. Il rione di Porta S. Angelo è uno dei più suggestivi del capoluogo umbro, un po’ defilato dal centro della città, ha però potuto mantenere, proprio per questo motivo, dei tratti fortemente autentici.

La torre, uno dei luoghi simbolo del rione, è affascinante in qualsiasi stagione dell’anno: immersa nella nebbia invernale o quando si erge maestosa in pieno sole l’estate; dotata di una terrazza panoramica, alla quale si arriva percorrendo numerosi gradini medievali da cui si gode della meravigliosa vista di Perugia, è uno dei siti più emozionanti della città. Ciò che tuttavia la rende unica, nel panorama dei luoghi storici perugini, è la preziosissima collezione di strumenti antichi che vi è esposta. Dallo scorso settembre infatti nella torre è ospitata la mostra degli strumenti musicali: MUSÌCA Verso il Museo diffuso degli strumenti musicali antichi, una raccolta promossa e sostenuta dall’Associazione Culturale Arte&Musica nelle Terre del Perugino che, con grande impegno e certosina pazienza, ha realizzato un eccellente assortimento di strumenti musicali antichi anche con il supporto di liutai, musicisti e collezionisti che hanno messo a disposizione di questo particolare progetto alcuni loro strumenti.

La Mostra è nata come prologo del futuro Museo diffuso degli Strumenti Musicali Antichi di Perugia “che sorgerà in Corso Garibaldi coinvolgendo le sedi di San Matteo degli Armeni, del Cassero stesso e della Domus Pauperum dove gli strumenti musicali saranno collocati seguendo un rigoroso progetto scientifico che si armonizzerà, dove possibile, con le strutture architettoniche e con le molteplici attività didattiche, musicali e culturali che il progetto metterà in campo”. Nelle tre sale in cui si sviluppa la torre, corrispondenti a tre fasi costruttive, contraddistinte ciascuna da tre impieghi di materiali edili, si possono apprezzare strumenti originali a partire dal XIX secolo e salendo verso l’alto, in un viaggio a ritroso nel tempo, si attraversano i secoli per arrivare ad ammirare, nella sala sottostante la terrazza, opere di liuteria musicale medievale e rinascimentale di grande pregio ed accuratezza artigianale.

La visione di queste rarità è accompagnata e sottolineata da pannelli rappresentanti iconografie musicali appartenenti ad artisti umbri contemporanei degli strumenti esposti tra cui: Matteo da Perugia, Perugino, Pinturicchio, che collocano nella loro epoca gli strumenti esposti. Fortepiano, pianoforti del primo novecento, flauti, clarinetti e violini antichi, ghironde, chitarre dell’ottocento, violoncelli, liuti, vielle, ribeche, cornamuse, flauti medievali e rinascimentali riempiono di emozioni gli occhi dei visitatori quasi sussurrando una musica riservata a chi sa ascoltare con il cuore.

L’ultimo autore protagonista di questa riflessione sulla prassi musicale nella novellistica minore è Masuccio Salernitano con la sua opera il Novellino, pubblicata nel 1476 dopo la morte dell’autore.

Masuccio Salernitano era lo pseudonimo di Tommaso Guardati, autore quattrocentesco, che è ricordato per questa raccolta di novelle che rappresenta anche l’unica sua opera.

Tommaso Guardati nacque a Sorrento intorno al 1410; durante la sua vita frequentò la corte aragonese svolgendo anche compiti diplomatici per Ferdinando I. Nel 1440 aveva sposato la nobile Cristina de Pandis da cui ebbe cinque figli, e dal 1463 fu segretario del principe Roberto di Sanseverino a Salerno dove morirà nel 1475.

L’ambiente umanistico napoletano fu sicuramente di stimolo al Salernitano che cominciò a scrivere novelle in volgare dedicate a esponenti della famiglia reale e a personaggi della corte aragonese e dove poté stringere amicizie non solo con nobili ed intellettuali napoletani, ma anche con letterati provenienti da altre città italiane.

La sua opera, di cui prima della pubblicazione circolavano novelle in forma sparsa, figura nel 1557 nell’Indice dei Libri proibiti promulgato dalla Santa Inquisizione Romana per il suo carattere fortemente anticlericale, sicché la circolazione dei racconti avveniva in forma semiclandestina.

Il Novellino si compone di cinquanta racconti divisi in cinque parti ognuno con un tema ed un prologo. Ogni novella è dedicata ad un personaggio della corte di Napoli ed è preceduta dall’esposizione dell’argomento e seguita da un commento di Salernitano in cui l’autore manifesta il significato morale della storia narrata.

La divisione dell’opera in decadi, con l’inserimento della cornice, nasce dal desiderio di emulazione del Decameron, del quale il Novellino riprende anche struttura e stile. Le cinque parti presentano cinque differenti argomenti che costituiscono  il punto di partenza delle novelle di un dato gruppo.

Il primo ha per oggetto il clero regolare e secolare che viene spesso deriso e punito, il secondo gruppo presenta figure di mariti gelosi e mogli infelici che però spesso cedono ad astuti corteggiatori. Nel terzo sono messi in risalto i difetti delle donne. L’amore è protagonista del quarto gruppo che narra storie di amanti felici e amori tragici ed infine, nella quinta parte, al centro dei racconti c’è spesso una donna di origine nobile ed il finale è quasi sempre lieto.

Il pubblico a cui si rivolge Masuccio è costituito dalle dame e dai cavalieri della corte ai quali rivolge un messaggio morale facilmente riconoscibile. Si rileva inoltre che mentre rispetto al Salernitano per alcuni autori l’aspetto musicale, le danze ed i canti sono elementi indispensabili alla cornice che le conferiscono la facoltà di contestualizzare la narrazione nel tempo e nello spazio, nel Novellino i riferimenti musicali sono per lo più presenti all’interno delle narrazioni. Solo alla fine della cornice della terza parte c’è un breve accenno ad una «suavissima armonia de diversi istromenti, che dentro il giardino faceano accordante melodia» che conforta l’autore dalle sue preoccupazioni.

Il mondo in cui si muovono i personaggi del Novellino non è comunque avvolto nel silenzio; la vita quotidiana è infatti cadenzata e sottolineata da tipi differenti di suoni che segnano lo scorrere delle ore della giornata, così anche nell’opera di Salernitano campane e campanelle scandiscono la vita dei protagonisti delle novelle.

Ecco quindi frati e popolo chiamati a raccolta dal suono delle campane come ad esempio nella novella seconda e nella quarta: «E fatta sonar la campanella a capitolo, congregati insieme tutti i frati», «Onde veduto le brigate quest’altro manifesto miracolo, ciascuno territo e stupefatto – Iesú! Iesú! – similmente chiamava, e cui a sonar le campane correa».

Nella quinta novella è interessante come uno strumento, la cornamusa, diventa parte integrante della storia in quanto denota l’indole del suo proprietario, il sarto Marco, più incline al divertimento che al lavoro. Narra Masuccio che Marco infatti «si era dato ad andare per le feste, che in quelli lochi dintorno si faceano, sonando con una sua piva molto bella ch’egli avea».

La cornamusa è così presentata da Salernitano con la caratteristica di essere uno strumento musicale adatto ad un contesto festoso e alla realizzazione di brani strumentali con un forte impatto sonoro adeguato quindi a quelle situazioni che prevedevano il coinvolgimento di un gran numero di persone. Uno strumento perciò che non richiedeva un ascolto così raccolto e attento come quello che invece era rivolto alle esecuzioni di Francesco Landini nel Paradiso di Gherardi.

Nella XXIX novella Masuccio si diverte a giocare con l’equivoco creato dal nome della viella (strumento ad arco medievale) che, nella letteratura del Trecento e del Quattrocento, viene quasi sempre chiamata viola. Viola nella novella è invece una fanciulla e così l’autore si serve di questa omonimia per sviluppare un intreccio salace e divertente, non scevro da spiritosi doppi sensi. Le rubriche che introducono le novelle XXXVIII e XLVII segnalano, ancora una volta, l’uso degli strumenti per l’esecuzione di musica per danza; tra gli strumenti citati nella trentottesima novella è l’arpa che realizza questo accompagnamento musicale: «E cossí lui, sorta la barca, e presa l’arpa del suo missere, con nova melodia cominciò a sonare…a la suavitá de tale musica ferono de piú acconzi balli trivisani».

Giovanni Gherardi (1360/67 - 1446 ca.) giurista, notaio e letterato, discepolo di Cino Rinuccini, è autore dell’opera Il Paradiso degli Alberti, nella quale la musica è parte integrante delle dotte disquisizioni e dei raffinati passatempi di una colta compagnia.

Gherardi, sul solco della tradizione boccaccesca, realizza un lavoro che raccoglie novelle, miti, viaggi immaginari e conversazioni, narrate da un gruppo di nobili fiorentini in tre differenti luoghi di cui l’ultimo è appunto la Villa di Antonio di Niccolò degli Alberti.

Il racconto si snoda attraverso le novelle che si alternano in maniera disorganica, alla narrazione di dispute storiche e filosofiche; l'opera è divisa in cinque libri l’ultimo dei quali è incompiuto. Rispetto al modello del Decameron risulta qui capovolto il ruolo della cornice; questa ha una maggiore e più rilevante posizione rispetto alle novelle alle quali è riservato soprattutto il compito di chiarire le questioni che animano le conversazioni dell’erudita compagnia. Il pubblico destinatario dell’opera di Gherardi è un pubblico elitario, alto borghese, e questo viene dimostrato anche dalle dimore in cui è ambientato il Paradiso. La brigata si intrattiene, infatti, dapprima nel castello feudale di Poppi dei conti Guidi, a seguire si sposta nel palazzo di via dei Benci ed infine conversa nella villa di Antonio degli Alberti, mercante e poeta, mecenate, protettore di artisti, di intellettuali e di scienziati. L’Alberti sogna appunto di realizzare, sotto la sua guida, un’accademia in cui siano presenti gli esponenti più rilevanti della cultura del suo tempo affiancandoli a donne, giovani ed anziani intellettuali.

Anche nel Paradiso, così come nelle giornate del Decameron, i convivi si concludevano con dei momenti musicali ma, mentre in Boccaccio gli attori sono i personaggi immaginari della brigata, Giovanni Gherardi ritrae quella che poteva essere una situazione musicale del suo tempo con il coinvolgimento di uno dei maggiori polifonisti attivi nella trecentesca Firenze: Francesco Landini.

Gherardi con le sue parole evoca una scena in cui il compositore esegue una sua ballata accompagnandosi con l’organo portativo al quale viene associato tanto da essere chiamato “Francesco degli organi”. E così, dopo il pasto, tutti si pongono all’ascolto attento di Francesco: […] E prestamente con piacere di tutti e singularmente di Francesco musico due fanciullette cominciarono una ballata a cantare, tenendo loro bordone Biagio di ser Nello, con tanta piacevolezza e con voci sì angeliche, che non che gli astanti uomini e donne, ma chiaramente si vide e udì, li ucelletti che su per li cipressi erano farsi più pressimani e i loro canti con più dolcezza e copia cantare.

Con questo passo Gherardi ci testimonia una delle possibili modalità di esecuzioni delle ballate; egli narra infatti come la ballata a tre voci Orsù gentili spirti ad amar pronti fosse realizzata a cappella da due voci femminili con il tenor maschile, un’interpretazione questa che ci attesta la prassi dell’uso delle voci femminili nella polifonia, seppur in occasioni private. Inoltre essendo realizzata con due voci femminili al superius e all’altus, doveva sicuramente essere adeguata alla tessitura femminile.

Gherardi continua sempre nel Libro III a tessere le lodi di Landini, tanto che il fatto che gli uccelli smettessero di cantare per ascoltarlo diventa occasione di una interessante disputa: […] fu comandato a Francesco che toccasse un poco l’organetto per vedere se il cantare dell’ucelletti menomasse o crescesse per lo suo sonare. E così prestissimamente facea; di che grandissima meraviglia seguìo: ché, cominciato il suono, si vidono molti uccelli tacere e, quasi come attoniti faccendosi più dapresso, per grande spazio udendo passaro; dapoi ripresso il loro canto, radoppiandolo, mostravano inistimabile vaghezza, e singularmente alcuno rusignuolo, intanto che apresso a uno braccio sopra il capo di Francesco e dell’organetto veniva.

Nel Paradiso troviamo comunque altre testimonianze relative, più che alla prassi, all’uso di strumenti musicali, come il riferimento alla chitarra di Alessandro di ser Lamberto che rende possibile il seguitare della festa: […] E dopo molte splendide vivande, levato le tavole e cantato e sonato più canti e suoni, due pulcellette con due garzonetti Mattio pigliò e con una isnella e leggiadrissima danza, dicendo Alessandro di ser Lamberto quella al tutto volere sonare elli, e co˙lla sua chitarra sì dolcemente sonò e che non ch’altri, ma Francesco musico tutto ringioire facea. E così per buono spazio di tempo l’ozio passaro con giocondissima festa.

I riferimenti agli strumenti e a situazioni musicali continuano ancora con il racconto delle gesta di Dolcibene, celebre giullare, citato anche da Sacchetti di cui era contemporaneo. Per Gherardi egli era «il re fatto di tutti i buffoni», ma anche «convenevole musico e ottimo sonatore d’organetti, di leuto e d’altri stormenti» a testimoniare il fatto che nel Medioevo fosse frequente l’abilità nel saper suonare più strumenti musicali. E’ testimoniato inoltre l’uso dell’arpa per accompagnare le danze: […] Per che il re perdonando loro, presto comandò che due de ’valletti prendessono le leggiadrissime donne e cominci assono lietamente con uno leggiadrissimo suono d’arpa a danzare. Infine si rileva ancora una scena di canto e danza che allieta i convitati alla fine della cena; in questa occasione però il canto delle fanciulle si alterna a quella dei giovinetti che accompagnano cantando il proprio ballo, anche qui si tratta di un ballo tondo, come quello che ci veniva raffigurato nel Tacuinum sanitatis: […] E così detto, prestissimamente due fanciullette cominciaro a cantare dolcissimamente, invitandoli alla cena; e tutti levati su, ne giro in vèr l’altra parte del boscetto, dove aparechiate eran le tavole richissimamente. E data l’aqua alle mani ne girono a ttavola cenando con grandissimo piacere, avendo varie e splendentissime vivande con diversi suoni e canti; e così finirono con somma consolazione la giocondissima cena. E levate le tavole, le pulcellette e’ giovinetti cominciarono a ffare uno ballo tondo, cantando ora l’uno ora l’altro legiadrissime canzonette.

La novellistica minore offre numerosi spunti di riflessione concernenti il panorama sonoro tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento. Le 155 Novelle di Giovanni Sercambi, che si inseriscono anch’esse nel filone delle opere nate seguendo l’esempio di Giovanni Boccaccio, rispetto all’opera di Franco Sacchetti, considerata nel precedente articolo, sono più ricche di riferimenti a situazioni musicali.

Giovanni Sercambi fu letterato, scrittore e politico nacque a Lucca nel 1348 dove morì di peste nel 1424; fu anche speziale ma la sua attività comprendeva anche la produzione ed il commercio di libri ed inoltre dedicò gran parte delle proprie energie alla vita politica.

Tra le Novelle ed il Decameron si possono evidenziare alcuni punti in comune quali l’epidemia di peste che offre il motivo del viaggio e la coincidenza con alcune storie del Boccaccio; nella cornice invece il fatto che l’autore sia il narratore delle novelle e che i racconti siano raccontati durante le soste di un pellegrinaggio, rivelano un’impostazione diversa.

Il novelliere ha per protagonisti alcuni giovani che si allontanano da Lucca nel 1374 a causa della peste, per un pellegrinaggio attraverso l’Italia, che toccherà anche L’Aquila. L’opera si apre con un’ introduzione nella quale vengono impartite alla brigata le regole da tenere durante il viaggio e, tra le molte indicazioni, ci sono anche quelle relative al contegno e alle norme alle quali attenersi durante le esecuzioni musicali.

Nell’introduzione, infatti, l’autore indica che gli strumenti siano «dilettevoli» e raccomanda che il canto sia realizzato «con voci piane e basse». Inoltre si preoccupa di dare suggerimenti riguardanti anche il testo dei brani suggerendo che siano eseguite «canzonette d’amore e d’onestà». In tutta l’opera è soprattutto nell’ambito della cornice che ci si dedica al canto e alla danza, la musica riveste quindi quella funzione realistica che aveva sottolineato Nino Pirrotta parlando della novellistica italiana. Sercambi, infatti, lega fortemente il suo racconto al suo tempo citando testi di ballate, madrigali e cacce, nonché brani poetici di scrittori a lui contemporanei o di poco precedenti.

Fra i brani musicali che i giovani pellegrini cantano per intrattenere ed intrattenersi durante le numerose tappe del viaggio, sono state identificati i madrigali: Come da lupo pecorella presa, Un bel giffalco scese alle miei grida, e Io fui già rusignolo in tempo verde, tutti composti da Donato da Cascia (sec. XIV) su testo di Niccolò Soldanieri (Firenze, .– Firenze, 1385). Tra gli altri sono stati riconosciuti i brani Virtù luogo non ha perché gentile, di Niccolò da Perugia (seconda metà XIV – dopo il 1402), che fu tra i collaboratori più stretti di Franco Sacchetti, L’aguila bella nera pellegrina, ed Io vo’ ben a chi vuol bene a me, di Gherardello da Firenze (1320 ca. – 1363 ca.), Vita non è più misera e più ria di Francesco Landini (1330 ca. – 1397), Da, da a chi avanza pur per sé, di Lorenzo Masini da Firenze (? - morto 1373), Ama chi t’ama, sempre a buona fé, e La fiera bestia di Bartolino da Padova (1365 – 1405). Inoltre sono presenti la ballata Ciascun faccia per sé di Antonio Pucci (1310 -1388) ed il sonetto Fior di vertù si è gentil coragio, di Cino Da Pistoia (1270 – 1336).

Il preposto invita a più riprese i componenti della brigata a cantare prima della cena, nell’attesa che sia servita, o per concludere la serata mostrando così i momenti che potevano essere ritenuti adatti alle esecuzioni musicali. Anche nelle altre opere, che siano di letteratura o cronache storiche, i convenuti sono intrattenuti o loro stessi si intrattengono con l’esecuzione di musiche, danze o brani vocali durante i momenti conviviali. Tutto ciò ci segnala l’uso di una prassi molto diffusa che si evolverà in momenti musicali sempre più ampi e ricchi di elementi drammaturgici e coreografici.

L’autore, nell’introdurre i momenti cantati, usa frasi simili fra loro ed inoltre mette in evidenza come alcune volte si esibiscano solo le voci maschili «li cantatori comincionno alcuna canzonetta in questo modo», in altri casi solamente quelle femminili «Le cantarelle, udendo la volontà del proposto, comincionno a cantare in questo modo», a volte invece cantano insieme: «il preposto comandò che a cantar le donzelle e’ cantarelli cominciassero», «E fatto silenzio, fe’ alcuna canzonetta a’ cantatori e cantarelle cantare in questo modo», «e’ cantatori e le cantarelle comincionno a cantar canzonette piacevoli e oneste».

In qualche caso sono dati dei cenni riguardanti modalità esecutive che fanno pensare a delle esecuzioni soprattutto a cappella: «i cantatori e cantarelle con dolci voci una canzona piacevole», «il proposto comandò a’ cantarelli che sotto voce soave si canti alcuna canzonetta», «i cantarelli e cantarelle con voci puerili cantarono in questo modo una canzona», «E presto uno cantatore con una damigella comincionno una canzona in questo modo».

Gli unici strumenti musicali indicati con il loro nome sono citati nell’introduzione: il salterio per i salmi e i liuti per intrattenere i giovani prima e dopo cena. Inoltre è segnalata la presenza generica di altri stormenti ma l’autore non si cura di identificarli ed infatti si limita a dire «il preposto comandò che li stormenti sonassero et i cantatori cantassero».

Questa generica indicazione è una modalità presente in molte opere, tuttavia, nelle altre fonti, quando i nomi degli strumenti sono specificati, si rileva la presenza regolare di liuti, arpe, vielle e strumenti a fiato. La presenza di stormenti che accompagnano le danze ed i canti si individua sia nella cornice che all’interno dei racconti; si rileva così la consuetudine per la quale quasi nella totalità delle volte in cui la brigata si riuniva per cenare si dava il via alle danze: “ Il preposto e lʹaltre brigate si puosero a sedere, li stormenti sonando preseno fine che al preposto piacque ballarono” (Novelle, LXII) “ Udita la piacevole novella, li stormenti cominciarono a sonare e le danze fatte fine che vennero le confezioni” (Novelle, LXXV). 

All’interno dei racconti la musica occupa però uno spazio decisamente marginale, la musica trova poco spazio in queste situazioni anche perché è regolamentata all’interno della cornice nella dimensione della vita reale. Si evidenzia però come, nella LXXXI novella, il protagonista, il giovane Federigo, viene definito «bello schermidore ballatore buono sonatore e cantatore», queste erano infatti abilità importanti che facevano parte dell’educazione del perfetto gentiluomo. Invece il canto diventa invece quasi un «canto a dispetto» nella novella CII attraverso il quale Belloccora e Passarino, si corteggiano provocandosi. Infine in altre tre novelle la CXXXV, la CXL e la CXLIIII abbiamo appena degli accenni al canto, mentre è solo nella novella CXLVIIII che la presenza della musica è legata ad un momento conviviale e festoso: la festa di matrimonio di Agata e Fasino che avrà risvolti decisamente salaci.

Un aspetto affascinante ma che spesso rimane sullo sfondo delle grandi ricerche è quello di comprendere come nel medioevo la sfera musicale fosse parte integrante della vita quotidiana. Infatti molte sono le testimonianze relative al fatto la musica fosse un elemento indispensabile degli avvenimenti a carattere commemorativo e celebrativo e le cronache concernenti i banchetti realizzati in occasioni di matrimoni delle élite e di visite ufficiali tra principi e reggenti, sono ricche di descrizioni che illustrano ogni particolare della cerimonia: dagli addobbi alle vivande non tralasciando i momenti musicali durante i quali si alternavano musici ed attori. Restano però nell’ombra tutte quelle circostanze che non hanno a che fare con i grandi eventi, ma che tuttavia, in una prospettiva di lunga durata, hanno influenzato la pratica musicale.

Le fonti letterarie del Trecento e del Quattrocento italiano rappresentano una risorsa molto interessante per cercare di capire quale fosse il modo in cui concretamente e quotidianamente era realizzata la pratica musicale. La novellistica italiana offre i maggiori spunti di riflessione perché il genere della novella è quello che meglio ritrae la società del tempo. Questo genere assume tale prerogativa proprio nel Trecento con l’opera che determinerà questo mutamento: il Decameron scritto tra il 1349 ed il 1351 da Giovanni Boccaccio (1313 – 1375).

Vittore Branca, massimo studioso di Boccaccio, afferma infatti che «Per una grande e organica rappresentazione narrativa è stata scelta per la prima volta nel Decameron, quale protagonista, la società contemporanea. Fin dall’Introduzione il Boccaccio […] aggancia solidamente nella realtà e nelle tematiche contemporanee la sua non più epopea ma commedia, ma narrazione di uomini del tempo suo e dei problemi più suoi.» Boccaccio rappresentò con la sua opera un modello da seguire per gli autori che si dedicarono a questo genere. Il Decameron diventò quindi il paradigma di riferimento e i contesti musicali, le citazioni di strumenti che sono largamente presenti in esso, sia nella cornice che nelle novelle, sono rilevate anche in autori ritenuti minori che hanno seguito il modello anche in questo aspetto.

Franco Sacchetti, Giovanni Sercambi, Giovanni Gherardi e Masuccio Salernitano saranno i protagonisti di alcuni articoli che cercano di focalizzare l’attenzione sulla musica come aspetto indispensabile della vita quotidiana.

Franco Sacchetti nacque a Ragusa di Dalmazia fra il 1332 e il 1334, era figlio di un mercante fiorentino ed esercitò anch’egli l’attività di mercante che alternò, dalla metà del XIV secolo, all’attività politica. Fu ambasciatore e membro delle più importanti magistrature fiorentine, priore e podestà in molte città della Toscana e dell’Emilia. La sua vita privata non fu fortunata: a partire dal 1376 perse il fratello, un figlio, la prima e la seconda moglie e nel 1400 morì di peste a San Miniato.

Franco Sacchetti con la sua vita rappresenta pienamente la borghesia fattiva ed intraprendente della Firenze del Trecento, dotata di un solido buon senso e di principi morali semplici e concreti. Lo scrittore fiorentino compose a partire dal 1363, prima del Trecentonovelle, cacce, madrigali e ballate che poi raccolse nel suo Il libro delle rime, di cui una parte fu destinata ad essere musicata ed alcune di queste furono musicate proprio da lui. Le sue rime ci restituiscono una poesia e una musica dai toni freschi e gentili, volta soprattutto a sottolineare i momenti più eleganti della vita di società. Inoltre tra queste composizioni compare un sonetto dedicato all’amico musicista Francesco Landini, il quale, a sua volta, risponderà a Sacchetti con un suo componimento.

Questi lavori però sono completamente assenti nella raccolta di novelle del Sacchetti. La raccolta è stata scritta dal 1392 durante il podestariato di San Miniato, per essere sviluppata in diversi momenti tra il 1393 e la sua morte. L’ opera si apre con un proemio nel quale il Sacchetti, pur definendosi «uomo discolo e grosso», afferma di aver scritto il suo libro per procurare ai suoi lettori sollievo in tempi così tristi. L’aspetto musicale nel Trecentonovelle, a differenza dalla sua precedente esperienza poetica, dove la presenza della musica si avvertiva prepotentemente sia nelle forme poetiche che nelle sue realizzazioni musicali, si configura soprattutto come il panorama sonoro in cui si muovono i protagonisti dei racconti. E’ singolare che Sacchetti, pur essendo autore di poesia per musica, nella raccolta novellistica non introduca riferimenti musicali specifici.

I suoi personaggi popolani, borghesi e signori, agiscono in una realtà ben determinata, nella quale però l’aspetto sonoro e musicale è relegato alla funzione di uno scenario di cui i suoni rappresentano solamente una delle tante componenti. Lo sfondo sonoro più ricorrente è quello costituito dal suono delle campane. I rintocchi dei campanili erano essenziali per scandire la giornata dell’uomo medievale: il suono delle campane non solo segnava il trascorrere del tempo, ma era anche un suono che chiamava a raccolta il popolo per divulgare notizie, chiedere aiuto o per burla. “Certi gioveni di notte legano i piedi di una orsa alle fune delle campane di una chiesa, la qual tirando, le campane suonano, e la gente trae credendo sia fuoco” (Trecentonovelle, Novella 200).

Suoni di campanelle e nacchere rappresentano segnali o mezzi di comunicazione tra i personaggi dei racconti. Riferimenti musicali più specifici sono presenti per caratterizzare meglio le avventure di giullari e burlatori di professione:disse a uno uomo di corte, chiamato maestro Piero Guercio da Imola, piacevole buffone e sonatore di stormenti, il quale era nel detto cerchio” (Trecentonovelle, Novella 9) ma anche personaggi particolari come nella novella di Volpe degli Altoviti: E ’l Volpe poi sel menò una volta a cena, e non gli dié testicciuole né occhi, ma diégli peducci, sí ch’egli apparasse a sonar le sampogne, o di sonare zuffoli diventasse buon maestro (Trecentonovelle, Novella 107). Altri riferimenti alla musica e al mondo sonoro della Firenze trecentesca li troviamo nelle novelle 114 e 115, in cui rispettivamente un fabbro ed un asinaio cadenzano il loro lavoro accompagnandosi dal canto in questo caso della Divina Commedia, tanto che Dante si risente perché costoro cantano i suoi versi «come si canta uno cantare». I cantari veniva recitati e cantati in ottava rima sulle piazze ed erano di carattere narrativo; la diffusione dei soggetti, che potevano essere leggende cavalleresche, vite di santi ed episodi dell’epica classica avveniva per tradizione orale. Le opere così potevano subire modificazioni ed adeguamenti sia per la modalità di trasmissione che per adattarli ad un pubblico popolare al quale venivano declamate.

Gli unici riferimenti ad una specifica ballata, di cui finora non è stata rinvenuta una versione musicale, sono quelli presenti nella novella 193 in cui è citato il capoverso Se la fortuna e ’l mondo, Mi vuol pur contastare che si riferisce ad una ballata di frate Stoppa de’ Bostichi, discepolo del beato Tommasuccio da Foligno, converso degli Eremitani. Nella novella 229 il Sacchetti invece cita il verso di una ballata di Antonio da Ferrara definito «uomo di corte», «quasi poeta» e «maestro» e fa declamare ad un prete i versi «Egli è molto da pregiare,/Chi ha perduto e lascia andare» che appartengono alla ballata Per fuggir né per dormire.

Lunedì, 11 Aprile 2016 11:30

La fortuna della follia

di

“Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia”. Erasmo da Rotterdam

Quando in musica si parla di Follia si intende una struttura musicale che presenta un tema ripetuto sul quale si possono realizzare una serie infinita di variazioni. Sebbene su questa stessa modalità compositiva siano state realizzate altre danze come la passacaglia, la ciaccona, la romanesca, la Follia ha goduto nel tempo, da parte dei musicisti, di una grande considerazione rispetto alle forme musicali alle quali può essere accostata.

Nel tardo XV secolo, il poeta e storiografo portoghese Garcia de Resende (Évora, 1470 – Évora, 1536) nella sua Crónica do prìncipe dom João II (1545) testimonia della diffusione in Portogallo di canti e danze che si identificavano con il nome di folia. Lo studioso racconta infatti come tutte le persone della città prendessero parte a danças e folias, durante i festeggiamenti tenutisi ad Evora nel 1490 in occasione delle nozze del principe Alfonso del Portogallo, figlio di João II, con la principessa Isabella di Castiglia, figlia di Fernando ed Isabella.

L’espressione folia portoguese è presente anche nei lavori teatrali dello scrittore Gil Vicente (1503-1529), per indicare le situazioni in cui pastori e contadini eseguono canti e danze dal carattere vivace. Nel 1611 Covarrubias Horozco in Tesoro de la lengua castellana o española spiegava che il nome folia era particolarmente appropriato a questa danza in quanto era caratterizzata da un ritmo così veloce e realizzata da strumenti così sonori che i danzatori sembravano come uscire di senno. Tra l’altro anche l’accompagnamento musicale che secondo la testimonianza del letterato spagnolo Gonzalo Correas datata 1626 era realizzato con la chitarra e sonajas e panderos rafforza la tesi che la folia fosse una danza molto sonora e dal ritmo frenetico.

Nella storia della folia si possono distinguere due differenti strutture musicali collegate tra loro: una più antica che si realizza in Spagna ed in Italia tra il 1574 ed il 1674 ed un tipo più tardo che si trova principalmente in Francia ed in Inghilterra tra il 1672 e il 1750. In Spagna, inoltre, questa danza era spesso anche cantata; una delle testimonianze più antiche è il villancico anonimo Rodrigo Martinez conservato nel Cancionero de Palacio (1475-1516).

La prima composizione in cui si trova la progressione armonica della Folia in modo ostinato è la Fantasia que contrahaze la Harpa a Tres di Alonso Mudarra che fu pubblicata nel 1546: in Libros de música en cifras para vihuela, però sarà il compositore Francisco de Salinas nel 1577 a chiamarla con il nome folia in De musica libri septem, mentre la più antica serie di variazioni sul tema sarà realizzata da J. H. Kapsberger nel Libro primo d’intavolatura di chitarrone pubblicato a Venezia nel 1604.

Nel Seicento l’introduzione della chitarra spagnola e delle forme musicali ad essa legate incontrarono grande fortuna in Italia tanto che numerosi musicisti scrissero variazioni sul tema della follia, tra questi si possono individuare Alessandro Piccinini (1623) che scrisse delle variazioni per chitarrone ed Andrea Falconiero che nel 1650 compose le variazioni per due soprani e continuo pubblicate a Napoli ne Il Primo Libro Di Canzone, Sinfonie, Fantasie Capricci, Brandi, Correnti, Gagliarde, Alemane, Volte per Violini, e Viole, overo altro Stromento ò uno, due e trè con il Basso Continuo.

Dopo la metà del Seicento il chitarrista italiano Francesco Corbetta (Pavia, 1615 circa – Parigi, 1681), al quale si deve l’introduzione della chitarra alla corte francese di Luigi XIV, realizzò nelle sue variazioni una esposizione della struttura in cui tutti i secondi quarti erano puntati, introducendo così un secondo accento che portò ad una nuova struttura ritmica e si ritiene che proprio in quegli anni Jean - Baptiste Lully introdusse la danza nella musica di corte tanto da comporre a sua volta una Folie d’Espagne

Questa folia più tarda non ha ritornelli è quasi sempre in Re minore ed è generalmente lenta con un andamento più solenne; in Francia era appunto chiamata “Follia di Spagna”, in Inghilterra “Farinell’s Ground”.

La Follia quindi, caratterizzata all’inizio da un ritmo frenetico e da un carattere popolare, diviene una composizione più solenne che però nelle numerose variazioni elaborate sul tema rivela momenti di grande tensione ritmica che rimandano alla sua iniziale genesi. Dal suo apparire, la folia suscitò nei compositori una grande carica attrattiva, tanto da divenire quasi un tormentone musicale dal cui fascino difficilmente i musicisti poterono sottrarsi.

Grandi nomi della musica hanno infatti scritto variazioni sul tema della follia e fra essi si possono annoverare: Girolamo Frescobaldi, Arcangelo Corelli, Alessandro Scarlatti, Antonio Vivaldi, Jean-Baptiste Lully, M. Marais, J-H. D’Anglebert, H. Albicastro, J. Sebastian e C. Ph. Emanuel Bach, A. Salieri, fino ad arrivare alle Variazioni su un tema di Corelli per pianoforte di Sergej Rakhmaninov del 1931.

"I lieti giorni di Napoli" è il suggestivo titolo di una raccolta di brani vocali composti nel 1611 da Girolamo Melcarne detto il Montesardo e rappresenta da parte del musicista pugliese il tentativo di riprodurre e diffondere a Napoli il nuovo stile monodico sperimentato negli anni trascorsi a Firenze. Girolamo Montesardo, così chiamato dal nome della località in cui nacque intorno al 1580, Montesardo di Alessano, prima di arrivare a Napoli infatti, svolse l’attività di musicista, cantore e maestro di cappella in diverse città italiane e la prima testimonianza musicale che lo riguarda risale al febbraio del 1603, anno in cui ricopre il ruolo di organista presso la basilica romana di S. Maria in Trastevere.

Tra il 1606 e il 1607 lo troviamo a Firenze ma già nell’aprile dello stesso anno si trasferisce a Bologna dove fu cantore nella basilica di S. Petronio. Nel 1608 cambiò nuovamente città divenendo da aprile a novembre del 1608 maestro di cappella nella cattedrale di Fano mentre nel 1609 si sposta ancora per assumere il ruolo di maestro di cappella del duomo di Ancona.

Nel corso di questi intensi anni tra un incarico e l’altro e da una città all’altra, comincia a dare alle stampe le sue composizioni. Le sue due prime opere pervenuteci risalgono al periodo in cui si stabilisce a Firenze perché era «desiderosissimo di sentire, e godere li canori Cigni, del nuovo Parnaso di questa virtuosissima città» e di servirne la «virtuosa nobiltà» come dichiara nella lettera di dedica a Francesco Buontalenti che accompagnava il suo primo lavoro pubblicato nel 1606 con il titolo di Nuova inventione d’intavolatura, per sonare li balletti sopra la chitarra spagniuola.

Nel 1608 viene pubblicata, sempre a Venezia, un’altra opera che rivelava nel titolo L’allegre notti di Fiorenza, il suo coinvolgimento nel progetto musicale che si andava affermando: la monodia accompagnata.

In quest’opera, dedicata a Piero Francesco Bardi, figlio di Giovanni, noto soprattutto per la lettera a Giovanni Battista Doni in cui racconta della celebre «camerata» del padre, dimostrava la comprensione verso i nuovi generi che si stavano affermando in quegli anni a Firenze.

L’allegre notti di fiorenza ... dove intervengano i più eccellenti musici di detta città musiche a una, due, tre, quattro, e cinque voci è una raccolta brani musicali da una a cinque voci ed il Montesardo immagina che queste musiche vengano eseguite durante veglie notturne nelle piazze fiorentine da una nobile brigata di gentiluomini e musicisti importanti della Firenze del tempo tra cui: G. Del Turco, A. Malvezzi, G. Bardi ed anche Jacopo Peri e Giulio Caccini.

Gli spostamenti di Girolamo proseguono probabilmente alla ricerca di un’affermazione professionale più appagante e nel 1611 si stabilisce a Napoli dove pubblica nel 1612 un nuovo libro di musiche: I lieti giorni di Napoli, concertini italiani in aria spagnuola a due, e tre voci con le lettere dell’Alfabeto per la Chitarra…. Opera XI. Sempre in quell’anno lasciò probabilmente Napoli per far ritorno a Lecce, è infatti dedicata ad Angelo Gallone, barone di Tricase, una raccolta di musica sacra pubblicata a Venezia nel 1612. Montesardo ricoprirà infine l’incarico di maestro di cappella del duomo di Lecce come afferma in un libro di mottetti, oggi perduto, stampato a Venezia nel 1619, dove rimase sicuramente fino alla morte avvenuta prima del 1643.

L’opera "I lieti giorni di Napoli", dedicata dal Montesardo al viceré Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos, è realizzata, come dichiarato nella prefazione come contraltare alla precedente opera fiorentina con il chiaro intento di lodare Napoli e la sua bellezza. Girolamo infatti scrive: "Ampie e illustre Città sono per l’Italia: ma fra tutte la più vaga, e più gentile (dicono) sia Napoli, che se ben in un’altra Opera di Musica lodai Fiorenza, per le notti allegre, non mi pareva conveniente tacer le devute lodi della mia bella, e gentile Napoli…".

I lieti giorni è una raccolta di diciotto brani vocali composti da Montesardo mentre il penultimo brano dal titolo “O felice quel giorno” appartiene a Francesco Lambardi, compositore napoletano del tempo. I brani scritti da Girolamo nel nuovo stile fiorentino sono sette, tra questi il primo brano “O fortunati giorni”, in stile recitativo, ricorda fortemente quello della Dafne di Ottavio Rinuccini, mentre nel brano Ite sospiri – La stratiosa, un amante rivolge il suo pensiero ad una fanciulla di nome Amarilli di cacciniana memoria. La raccolta riveste inoltre anche un ulteriore interesse in quanto i brani vocali sono per la prima volta corredati dall’alfabeto per chitarra per la realizzazione del continuo.

L’Abruzzo conserva numerose testimonianze della ricchezza culturale e artistica di cui fu protagonista in epoca medievale e rinascimentale ed il codice musicale di Rocca di Mezzo rappresenta un autorevole segnale della vivacità musicale documentata anche in borghi apparentemente isolati come appunto il paese montano di Rocca di Mezzo. Il borgo è situato nel cuore del Parco del Sirente, attualmente è una gradevole località che offre numerose opportunità di vacanza al turista che vi si trovi a soggiornare in qualsiasi periodo dell’anno. Rocca di Mezzo ebbe però una notevole importanza nei tempi passati sia per la posizione geografica strategica, al confine tra il territorio aquilano e quello di Celano, sia per la fiorente attività pastorale.

Il codice, risalente al XVI secolo, appartiene alla chiesa di Santa Maria della Neve fatta costruire nella seconda metà del secolo decimoquinto dal Cardinale Amico Agnifili, originario di Rocca di Mezzo. Santa Maria della Neve all’epoca doveva ricoprire una significativa importanza tra le chiese del panorama aquilano se una relazione risalente al 1577 del vescovo di Aquila Joannes de Acugna rilevava la presenza di un alto numero di canonici in servizio in questa parrocchia, non tutti però con obbligo di residenza.

Nelle sue osservazioni il vescovo inoltre si raccomandava vivamente dell’effettiva partecipazione di tutti i religiosi ai servizi liturgici più importanti, tali esortazioni fanno suppore una grande cura nell’allestimento delle funzioni religiose e legittima la presenza di un codice musicale dedicato agli uffici liturgici al cui interno si trovano composizioni polifoniche di un indubbio valore.

Il manoscritto fu attentamente studiato all’inizio del 1970 dal musicologo Agostino Ziino che pubblicò nel 1974 per le edizioni Pro Musica Studium, un saggio dal titolo Documenti di Polifonia in Abruzzo a cui rinvio per gli opportuni approfondimenti. Il termine post quem cui si può datare il codice è il 1519 anno in cui Don Cicco Marini, come annotato sul recto dell’ultima carta, lo donò alla chiesa parrocchiale ad honorem Conceptionis Virginis Marie.

Secondo il parere di Agostino Ziino le composizioni polifoniche presenti a partire dalla carta 39 furono inserite in un secondo momento, presumibilmente tra il 1570 ed il 1590, e le quattro mani differenti che si alternarono alla compilazione del manoscritto presentano numerose caratteristiche che le identificano come di origine francese.

I brani polifonici del codice sono: un Magnificat di “Laurensius Gasparinus” che viene indicato nella carta 40 come “gaspard”, il mottetto a quattro voci di Josquin de Prés Tu solus qui facis mirabilia, la villanella alla napoletana a tre voci di anonimo Se me voi morto, due mottetti a quattro voci sull’antifona Adoramus te Christe, di cui il primo anonimo mentre il secondo reca la scritta “Laurensius gaspar fecit” ed infine un ultimo brano vocale dal titolo Hodie Maria Virgo caelos ascendit. Il codice conserva inoltre alla carta 53 un canone a sei voci dove ricompare il nome di “gaspard”.

Tranne il mottetto di Josquin des Prés, di cui nel codice non è indicato l’autore ma è conosciuto perché presente in altre fonti, le altre polifonie del codice non hanno trovato riscontri al di fuori di questo manoscritto.

Il Magnificat dell’ottavo modo, di cui sono musicati i versetti pari, si distingue per una scrittura musicale contrappuntistica ed articolata e presenta inoltre numerosi elementi che possono sostenere la tesi che il codice sia stato compilato da amanuensi di origine francese. Tra le caratteristiche che hanno condotto il prof. Ziino a questa conclusione c’è ad esempio l’uso dell’indicazione “Tria” prima del versetto a tre voci Sicut locutus est, oppure il procedere di nuclei tematici brevi caratteristici delle composizioni francesi del XVI secolo, considerazioni queste riferibili anche ai due mottetti Adoramus te Christe.

Il mottetto a quattro voci Hodie Maria virgo coelos ascendit invece fu composto probabilmente da un musicista italiano di nome Johannes de Oleo con uno stile più semplice, quasi laudistico.

L’unico brano di carattere profano presente nel manoscritto è una villanella dal titolo Se me voi morto anche questa non presente in altre fonti. Il testo presenta dei vocaboli dialettali della zona tra Lazio e Abruzzo e si serve di espressioni forti come quelle che si individuano in villanelle risalenti a pubblicazioni a partire dal 1560 ed anche lo stile musicale è affine a quello delle villanelle di area centro-meridionale, per queste caratteristiche la datazione di Se me voi morto può essere fissata tra il 1560 ed il 1570. Il codice di Rocca di Mezzo fino al terremoto del 2009 era custodito nel museo d’arte sacra “Cardinale Agnifili” annesso alla chiesa di Santa Maria della Neve ad oggi, anche se la chiesa non è ancora aperta al culto, i lavori di ristrutturazione sono terminati e si stanno ultimando gli ultimi lavori di restauro.

 

Per approfondimenti consultare: Agostino Ziino, Documenti di Polifonia in Abruzzo, in Musica Rinascimentale in Italia, Pro Musica Studium, Roma 1974

Monumento della monodia iberica le CANTIGAS DE SANTA MARIA sono una collezione di canti dedicati alla Vergine Maria che fu realizzata sotto il regno di Alfonso X (1221-1284) re di Castiglia e di Leòn. Alfonso, figlio di Ferdinando III e di Beatrice di Svevia, tra il 1270 ed il 1283 compose, raccolse e fece comporre i 420 canti conosciuti appunto come Las Cantigas de Santa Maria.

Alfonso X, detto el Sabio, non fu un sovrano con particolari capacità politiche, si distinse al contrario per il suo mecenatismo: l’amore per la cultura lo spinse a dare grande incremento agli studi scientifici e letterari facendo confluire nella sua corte le personalità più erudite del mondo cristiano, arabo ed ebraico, e stabilì un corso di musica presso l’università di Salamanca. Fra le numerose opere realizzate dai letterati e i musicisti della sua corte, Las Cantigas de Santa Maria furono definite “uno dei maggiori monumenti della musica medievale”.

Questi canti sono conservati in quattro codici di cui tre notati e riccamente miniati i quali, oltre alle immagini che illustrano i miracoli narrati, presentano una serie di miniature che hanno per oggetto lo strumentario medievale, rappresentato quasi nella sua totalità, tanto da essere una fonte ricchissima di informazioni per gli studiosi ed i musicisti. Le miniature riproducono coppie di suonatori, talvolta in costume moresco e alcune di esse ci possono illuminare sull’esecuzione, anche ricca dal punto di vista dell'organico, delle cantigas; in una di queste si vede infatti il re Alfonso circondato da un buon numero di musicisti, cantanti e danzatori.

I testi poetici e la musica delle Cantigas derivano da fonti svariatissime; furono composti in lingua gallego-portoghese che fu la lingua della poesia lirica della Castiglia fino al XIV secolo, e narrano storie di pellegrinaggio, di peccato e di devozione profonda in cui interviene miracolosamente Santa Maria, per premiare o per punire e ogni dieci cantigas che potremmo definire narrative, ce n'è una de loor, cioè di lode. Gli argomenti dei miracoli narrati sono in parte appartenenti alla tradizione e quindi si trovano delle corrispondenze anche in altre raccolte, però spesso Alfonso si cura di localizzarli cronologicamente e, pur tenendo conto delle dovute limitazioni, uno dei molti punti di interesse è che le cantigas mostrano attraverso i loro racconti uno spaccato della società del tempo, infatti l’oggetto dei miracoli raccontati spesso non è la narrazione di fatti eccezionali ed eroici, ma di piccoli momenti di vita vissuta, di difficoltà quotidiane in cui l’azione miracolosa della Madonna è richiesta per risolvere beghe familiari, intrighi di corte e sotterfugi amorosi.

Già la breve sintesi costituita dalla rubrica iniziale che correda ogni canto può darci l’idea di come la vita quotidiana costituisca uno dei temi principali delle cantigas:

“Come Santa Maria fece fabbricare ai bachi da seta due veli, perché la donna che li curava gliene aveva promesso uno e non glielo aveva dato”
“Come Santa Maria evitò a un contadino di morire per i colpi che gli davano un cavaliere e i suoi uomini”
“Come la donna che il marito aveva lasciato in custodia a Santa Maria, non poté mettersi al piede né togliersi la pantofola che le aveva donato il suo spasimante ”
“Come Santa Maria guidò i pellegrini, che si recavano alla sua chiesa a Soissons e di notte sbagliarono strada”

Tra i racconti non potevano mancare quelli riferiti a frati, monache e cavalieri e nella cantigas n° 235 è lo stesso re Alfonso protagonista di un prodigioso miracolo.

Tra le varie forme musicali quella che compare più spesso è quella che si avvicina al virelai con il seguente schema: A \ B \ A1; (dove A1 presenta la stessa melodia di A) anche se le varianti sono numerose.

Le melodie sono talvolta totalmente originali, altre denunciano un debito nei confronti di probabili fonti popolari, liturgiche e para – liturgiche della musica trobadorica e forse anche della contaminazione con la letteratura musicale degli arabi che dominavano il sud della penisola iberica e che erano presenti alla corte di Alfonso El Sabio.

Le testimonianze dei conviti trecenteschi sono abbastanza rare ma già dal Medioevo il banchetto è il luogo della consacrazione di un avvenimento politico o familiare diventando sempre più un mezzo di propaganda e di affermazione sociale.

Questi avvenimenti eccezionali sono realizzati con il concorso della comunità intera che espone alle finestre panni e tappeti e prende parte ai cortei che conducono ai luoghi dei banchetti. Le autorità composte dalle cariche cittadine e dalle corporazioni delle arti e dei mestieri si contendono le precedenze nei cortei per manifestare la propria importanza all’interno del governo cittadino.

Lo storico cinquecentesco Bernardino Corio, ne L’historia di Milano tramanda la cronaca del banchetto che il 7 ottobre del 1268 si organizzò a Milano per il passaggio di Margherita di Borgogna Nevers che era in viaggio per raggiungere Palermo dove avrebbe sposato Carlo I conte d’Angiò e re di Provenza incoronato re di Sicilia nel 1266 dopo la morte di Manfredi. Corio riferisce che «le tavole furono apparecchiate nelle pubbliche piazze […] Tutta l’università di Milano gli andarono incontra con gli stendardi, & bandiere della Communità, tamburri, ciaramelle, & trombe». In seguito i banchetti prenderanno forme più precise con regole e gestualità che si riscontrano simili in differenti luoghi d’Italia. Nei racconti, all’elenco delle numerose vivande, si alternano momenti dedicati alla musica e agli spettacoli e le cronache del tempo ci tramandano le fasi dei convivi e dei loro cambiamenti. Il banchetto è, infatti, solo una delle componenti di un intenso programma di eventi che è generalmente realizzato in più giorni e che può comprendere tornei, giostre, balli, commedie e spettacoli di contorno.

L’Anonimo Romano, identificato dal filologo Giuseppe Billanovich nello scrittore Bartolomeo di Iacovo da Valmontone (? - 1357 o 1358), nella Cronica: vita di Cola Di Rienzo riferisce di un banchetto imbandito per ottocento persone, da Mastino II della Scala (1308 – 1351) per accogliere gli ambasciatori veneziani: Lo sequente dìe lo convito fu apparecchiato grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de ottociento perzone. Alla prima tavola aitre scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre vascella. A questo convito Veneziani vennero, li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della sala, in veduta de tutta la corte per là venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. [...] Stava missore Mastino in capo della sala, più aito che tutta l'aitra baronia, servuto a tavola como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire. Cavalieri a speroni de aoro servivano denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito facevano doice sonare. Bene pareva in paradiso demorare. Po' le vivanne viengo buffoni riccamente vestuti. Tal cantava, tal ballava, tal mottiava.

Ecco quindi che, fatti accomodare i commensali, Mastino si impone con la sua presenza quasi regale per la sua posizione a tavola e mentre sono servite le portate, gli strumenti sottolineano questo momento così dolcemente che sembrava di essere in Paradiso. E’ nel Quattrocento però che il banchetto si afferma definitivamente come espressione di un cerimoniale attraverso cui una ristretta élite culturale, ribadisce il suo ruolo egemone e di supremazia sia politica che culturale, anche se acquisterà pienamente questa connotazione solo sul finire del secolo. Infatti i matrimoni di Bernardo Rucellai con Nannina de’ Medici e di Lorenzo de’ Medici con Clarice Orsini avvenuti a Firenze rispettivamente nel 1466 e nel 1469, sono realizzati da Piero di Cosimo (1416 -1469) con l’intento di consolidare antichi rapporti d’amicizia.

Il programma delle feste sembra essere così circoscritto in un ambito familiare, Giovanni Rucellai, padre di Bernardo è comunque prodigo nelle spese affinché l’evento sia a lungo ricordato dai fiorentini. Per la festa realizzata l‘ 8 giugno 1466, si costruisce un palchetto «e’ n sul decto palchetto si danzava e ffesteggiava e apparecchiava pe’ desinari et per le cene. […] contando le donne e fanciulle chasalinghe, e’ pifferi e trombetti, mangiava 170 persone.» I festeggiamenti per il matrimonio di Lorenzo de’ Medici durano tre giorni e si svolgono nel palazzo di famiglia in via Larga, anche in questo resoconto realizzato da Piero di Marco Parenti, autore anche di una Storia fiorentina, si alternano gli elenchi dei cibi e delle portate a quello dei nomi dei partecipanti e delle descrizioni dei vari momenti della giornata. La «Domenica mattina la Sposa partì da casa Benedetto degli Alessandri, con molte trombe e pifferi innanzi; […] Erano accompagnate da altra parte di giovani delle nozze in abito da danzare e colle trombe innanzi […] però che ciascuna vivanda veniva per la porta da via, colle trombe innanzi.» La musica, più tardi durante il Rinascimento, acquisì un ruolo essenziale nelle celebrazioni solenni delle cerimonie delle grandi corti.

La musica e gli spettacoli realizzati nell’ambito dei matrimoni tra aristocratici saranno il veicolo più efficace per affermare il prestigio e la potenza delle casate. Il primo grande matrimonio che si avvarrà di musicisti e compositori per realizzare questo intento sarà quello tra Cosimo de’ Medici ed Eleonora di Toledo celebrato a Firenze nel luglio del 1539.

Dedicato a Nello Avellani e Alessia de Iure per il loro matrimonio 6 giugno 2015

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