Alla base del sistema cruciforme, spaziale e relazionale di Collemaggio di cui avevamo parlato in un precedente articolo [qui] c'è la Villa Comunale, che è anche il luogo di due tra le migliori sorprese post-sisma. Almeno finora. Prima di tutto perché si è ridato l'Emiciclo alla città, con una mossa semplice quanto rivoluzionaria. L'altra sorpresa, non meno importante, è il campus universitario che vi si è impiantato grazie al GSSI: le aule da una parte, i dipartimenti dall'altra, le foresterie organizzate da un'altra parte ancora che si vanno ad aggiungere ai preesistenti uffici della Giunta Regionale.
Il campus urbano della Villa è l’esempio lampante di come un luogo poco più che ameno, tenuto così così ma mai troppo male, luogo di commemorazione ai caduti e di mercatini di Natale, possa diventare il quotidiano campo di incontro, attraversamento, vita e studio di ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo e di come una piazza oggigiorno, per essere tale, prima ancora che un bel posto debba essere contornata di funzioni, possibilmente diverse.
E’ tornata ad essere forte luogo di incontro Piazza Regina Margherita, potremmo dire che lo è diventata (certamente più che in passato) Piazza Chiarino e lo sono, in modo un po' diverso e talvolta inconsapevole, Via Leonardo da Vinci tra la Regione e il Movieplex, Via XX Settembre tra il Tribunale e Gusto, via Strinella e Via De Gasperi (il Torrione) per tutta la loro lunghezza. Per lo stesso motivo, all'opposto, non possono dirsi piazza tanti spazi della periferia nati con l’ambizione di esserlo ma ridotti a piazzali per lo più di parcheggio, quando va bene, cosi come non può ancora dirsi piazza la stessa Piazza Duomo: ancora poche le attività commerciali, ancora in esilio il mercato, nessun ufficio o sportello pubblico ad agevolarne la ripresa.
Le condizioni che stiamo ponendo come minime affinché uno spazio possa ritenersi un luogo pubblico di incontro potremmo definirle prestazionali, perché capaci di innescare un certo numero di presenze e relazioni insieme. E’ un aspetto quantitativo, dunque, che è condizione necessaria e sufficiente all’inverarsi di una piazza dal punto di vista funzionale, mentre è condizione necessaria ma non sufficiente al verificarsi di una piazza nel senso pieno del termine.
L’altro ingrediente è quello qualitativo, monumentale ed evocativo, di cui proprio in Italia esistono esempi mirabili in ambito storico ma che, d’altro canto, risultano inadeguati se calati senza i necessari adattamenti nei brani della città contemporanea e periferica.
Con una battuta potremmo dire che nel senso comune la piazza è diventata un luogo comune: si crede basti nominarla come tale perché sia animata di socialità; la si associa sempre e comunque a quinte e arredi storici, anche se in brani recenti o contemporanei di città; alcuni danno per scontato che gli spazi di periferia debbano servire esclusivamente per parcheggiare; i luoghi di aggregazione spontanea ma interferenti con la viabilità automobilistica vengono regimentati e ingessati per garantire la libera circolazione delle automobili. E così, certe città, da una parte sono costellate di vuoti progettati tra i condomini di fine ‘900, magari con lampioni e panchine in ferro battuto, privi di qualsiasi forma di vita perché mancanti di qualsiasi motivo di attrazione, mentre dall’altra ci sono strade o spiazzi regolarmente attraversati da persone che si muovono da un attrattore funzionale all’altro, magari rischiando la vita, senza un minimo di disegno o di pensiero progettuale. Altre volte ancora vuoti urbani in contesti storici anche di pregio sono dimenticati se non dalle automobili.
Insomma, quando pure ci fosse una qualche attenzione alla sistemazione degli spazi pubblici, il più delle volte non vi corrisponde una cultura del “luogo”.
Eppure la ricetta non dev’essere poi così difficile se Barcellona già prima del 1992 ha saputo cogliere l’occasione delle Olimpiadi per aggiornare il sistema delle relazioni e del decoro urbano, all’interno del tessuto storico come lungo e a cavallo delle tangenziali automobilistiche. La “ricostruzione” di Barcellona ha visto interi quartieri riqualificati sperimentando forme e materiali nuovi, facendo diventare occasione di rigenerazione, decoro e aggregazione il verde urbano come la pergola fotovoltaica, il sovrappasso infrastrutturale come l’ampliamento museale. Nella ricostruzione dell’Aquila, invece, il tema dello spazio pubblico è evidentemente di grado secondario se non totalmente dimenticato: nessuna misura direttamente collegata alla ricostruzione degli edifici sta producendo miglioramenti allo spazio urbano circostante e quelle pochissime misure amministrative finalizzate a questo scopo - le cosiddette “Aree a breve” per esempio - sono totalmente abbandonate al loro destino, se non rigettate nei rari casi di attivazione da parte privata.
In tutta la periferia aquilana gli spiazzi tra i condomìni sono lasciati a distese di asfalto e breccia, l’assenza di forme di aggregazione e anche solo di alberi non stimola l’attecchimento di servizi di vicinato, già fortemente penalizzati dalla grande distribuzione commerciale. I quartieri sono sempre più dormitori e anche un’eccezione storica come Via Strinella mostra forti segnali di un prossimo impoverimento, per nulla aiutata da un disegno urbano diffuso che sappia far fronte al mutare delle condizioni che un tempo l’avevano resa, se non attraente, quantomeno attrattiva. Anche per il piazzale della stazione ferroviaria, per fare un esempio tra i tanti stabilmente attrattivi per ragioni meramente funzionali, non si riesce a concepire altro che un ridisegno e rinnovamento del parcheggio (se mai arriverà). Nessuno spunto verso la sua evidente vocazione morfologica alla stratificazione dove al già esistente parcheggio si potrebbe sovrapporre una copertura leggera, praticabile e verde in grado di fare ombra al parcheggio, rendere gradevole la permanenza in quello spazio di attesa e - perché no – di incontro. Donare insomma un po’ di decoro e benessere urbano ai piedi delle mura. Esistono numerosi esempi in giro per il mondo, basterebbe solo dare uno sguardo in giro e saper copiare.
A L’Aquila non mancano neppure i casi di spazi appositamente attrezzati ma incapaci di svolgere questa loro funzione, come nel caso dei giardinetti posti tra Viale Ovidio e Piazza Battaglione Alpini (Fontana Luminosa), a meno che non si sia voluto deliberatamente destinare quel boschetto a chi voglia tornare a bucarsi. Abbiamo ben altri problemi, per carità, ma le operazioni urbane succedutesi negli anni riguardo quel triangolo di suolo cittadino dimostrano come, talvolta, si intervenga più per dire di aver fatto qualcosa che non per migliorare lo stato delle cose.
E poi c’è Piazza Duomo, probabilmente meno bella di altre ma allo stesso tempo la più significativa! Il suo ruolo non può prescindere dallo storico mercato giornaliero e la sua ridefinizione non può semplicemente risolversi con una piantata di alberi messi a mestiere. Anche qui, secondo chi scrive, la chiave sta nella stratificazione e in un buon progetto di sezione. Il sottosuolo può e deve essere utilizzato per aggiungere valore alla vocazione preesistente, magari con uno spazio museale dedicato ai terremoti e alle ricostruzioni che hanno interessato la città. Di certo scartando la destinazione commerciale ipogea che, né qui né alla Fontana Luminosa, deve andare a fare concorrenza alle attività commerciali che dovranno tornare ad animare l’intero centro storico. Al di sopra, visto l’uso e il clima del luogo, bisognerebbe trovare il coraggio di coprire anche solo parzialmente la piazza, con una struttura leggera eventualmente amovibile che sia frutto di un processo progettuale attento quanto laico.
Il giudizio estetico sulla piazza, l’ipotesi ipogea e ancora più quella di inserire una copertura faranno certamente storcere il naso a più di un aquilano eppure, se sul de guistibus non possiamo che sorvolare, le ipotesi progettuali possiamo suffragarle con numerosi esempi in contesti simili per tipologia urbana e d’suo senza doverci spingere molto lontano, dalla bolognese Piazza Re Enzo a Piazza Ghiaia di Parma. Del resto, che Piazza Duomo debba rimanere com’era-dov’era non è che l’ennesimo luogo comune.
Passando ai parchi, anche su Piazza d’Armi si è abbattuta la iattura dei luoghi comuni aquilani per cui, come già abbiamo avuto modo di argomentare [qui], per inseguire il parco duro e puro si è gettata alle ortiche l’irripetibile opportunità di risolvere in un colpo solo anche il nodo ovest della mobilità cittadina, con un gate intermodale ipogeo – la stratificazione, ancora lei - garantendo al parco stesso un’inesauribile fonte di frequentazioni a tutte le ore del giorno e della notte. Il che forse non sarebbe neppure troppo piaciuto a una città che i parchi tende a chiuderli, ma tant’è. Potremmo indugiare ancora sui tanti, troppi luoghi comuni di questo post-terremoto, appesi come zavorre alle braghe di chi invece avrebbe voluto ricostruire una città coraggiosamente migliore. Ma è tutto sotto gli occhi di tutti, tranne che dei benpensanti.
Marco Morante – architetto e dottore di ricerca in architettura e urbanistica Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.