Dopo il successo al Vittoriano, la mostra del fotografo aquilano Roberto Grillo, “L’Aquila, volti e segni di un terremoto” torna nel capoluogo abruzzese. Sarà riaperto eccezionalmente il salone centrale dell'ex Carispaq in Corso Vittorio Emanuele, che ospiterà la mostra dal 23 al 29 agosto, in concomitanza con la Perdonanza Celestiniana. Dopo i discussi reportage del sisma che imperano da mesi lungo i portici del centro storico, questa volta l’obbiettivo del fotografo è puntato unicamente sui volti degli aquilani, raccontando il terremoto attraverso le espressioni senza ricorrere neanche a un’immagine delle macerie.
Il lavoro si presenterà in tre sezioni. Nella prima sezione Grillo ha chiesto alle persone di ritornare con la memoria alle 3.32 del 6 aprile 2009 e ha cercato di catturarne un’azione-reazione; nella seconda, attraverso un’impostazione diversa di luce e inquadratura, i loro volti sono diventati una parte della città: “Potevano essere delle vie, delle case, delle piazze, hanno perso la fisionomia e sono diventati degli oggetti”, spiega il fotografo. Nella terza sezione è stato chiesto ai soggetti di scrivere parole legate al terremoto ed individuare una parola per ogni ruga, per ogni segno del terremoto.
In occasione del suo ultimo lavoro, Roberto Grillo ha raccontato a NewsTown della svolta nel suo percorso artistico e di come è stato e si continua a “fotografare il dolore”, quello che non va via e che, in qualche modo, è giusto raccontare.
Cosa si prova nel riproporre la stessa mostra che ha visto un grande successo a Roma, nella città che l’ha ispirata?
Quella di Roma è stata un’occasione importante per proporre un lavoro in un contesto nazionale; per me ha rappresentato una sorta di passaggio obbligato, ovvero una crescita dal punto di vista artistico, oltre al fatto di poter presentare la nostra realtà in un ambito più ampio, non solo nazionale ma anche internazionale, dal momento che c’è stato una grande numero di visitatori stranieri. L’Aquila resta la volontà costante di parlare con i miei concittadini, molti aquilani non sono potuti venire a Roma, c’è quindi da parte mia la voglia e il desiderio di proporre questo ultimo lavoro alla mia città. D’altronde ho sempre privilegiato il rapporto con gli aquilani, piuttosto che con un pubblico al di fuori della città.
Le sue foto di reportage sono esposte lungo i portici e a pochi metri da lì verrà allestita questa mostra che presenta indubbiamente uno stile diverso. A cosa è dovuta la scelta di abbandonare il reportage vero e proprio per dedicarsi a ritratti non ambientati?
Il percorso professionale che ho seguito è stato abbastanza naturale: i primi tempi mi sono occupato di reportage perché mi è venuto spontaneo avendo fatto il fotoreporter per tanti anni ma poi, ho iniziato a cercare delle vie alternative. Ho intrapreso quindi verso una forma più “astratta”, più intima e creativa rispetto al reportage. Da trent’anni ho a che fare con molti volti ma, per la prima volta, mi sono impegnato a fare un lavoro specifico attraverso la ritrattistica.
C’è quindi stato un lavoro ricercato dietro ogni foto?
Sì, concettuale, nel senso che con la macchina fotografica vai e scatti ma concettuale è tutto ciò che lascia un’idea dietro, qualunque essa sia. Come ha detto Toscani con molta simpatia: “ho visto le cacche di tanti animali diversi”. Anche quella sarebbe un’idea per far capire che ci sono molti animali che si sono riappropriati della città abbondonata, questo è concettuale.
A proposito di Oliviero Toscani, come lui molti grandi fotografi sono venuti a L’Aquila ma perché, secondo lei, gli aquilani dovrebbero farsi fotografare?
E’ giusto essere fotografati perché noi, volente o nolente, facciamo parte della storia della nazione e del contesto di una città: così come L’Aquila viene fotografata, a seguito di un evento importante come il terremoto, è giusto fotografare anche noi aquilani. Se poi le immagini vanno a ledere l’intimità quello è un discorso diverso, anche legale. Tra l’altro, pur nutrendo un rispetto assoluto verso fotoamatori e professionisti, credo che oggi con l’evoluzione della tecnologia chiunque scatta fotografie ma, come ha detto Oliviero Toscani, “non tutti quelli che hanno la macchinetta in mano sono dei fotografi”. Io vedo molte cose stantie e ripetitive, che non aggiungono nulla al dramma e credo che se un fotografo viene qui dovrebbe dare un punto di vista diverso, altrimenti puoi funzionare all’esterno, ma non funziona per me aquilano perché io come aquilano già so tutto. La differenza tra me e Toscani, fermo restando che lo ritengo “un dio”, è che lui è venuto qui e ha fatto le sue foto con le “faccette”, mentre io ho cercato di fare un lavoro diverso, cercando una mia strada per esprimere tutto ciò che ho dentro, di negativo e di positivo.
Quindi, secondo lei, la maggior parte dei fotografi venuti a L’Aquila hanno osservato e reso sempre dallo stesso punto di vista la città?
Nella prima fase i fotoreporter hanno scattato foto con cieli blu che sembravamo quasi una città sul Grand Canyon: un’alterazione cromatica totalmente discutibile, a mio parere. Negli ultimi tempi mi è sembrato di vedere solo “foto cartoline” che hanno comunque una loro importanza perché sono immagini della nostra città ma di fatto, non so quanto possano essere costruttive.
Come riesce un fotografo, in un contesto così delicato come il terremoto, ad indagare ed interpretare i il dolore senza essere invadente e senza abusarne?
Premetto che io ho avuto gravi perdite in famiglia in questi anni quindi sono abituato al dolore e riconosco e condivido il dolore degli altri. Nel mio caso, i cittadini colpiti dal terremoto credo che abbiano riconosciuto in me un aquilano che ha una motivazione e un rispetto diverso rispetto ad un fotografo che viene da fuori. L’espressione più alta di questo concetto è la foto di Vittorini e del figlio sul cratere della loro casa: quella foto, per quanto possa essere discutibile secondo molti, è la sintesi di fiducia totale e incondizionata di una persona toccata nella maniera peggiore da questa tragedia ad un fotografo, amico e concittadino. La motivazione principale delle mie fotografie è sempre il rispetto e il ricordo di chi è morto sotto le macerie e penso che si debba avere un approccio educato ed elegante nei confronti di chi non c’è più. Non ho bisogno di uno scoop: la foto di Vicenzo e del cratere me l’hanno chiesta tutti i giornali italiani, ma io non l’ho data a nessuno perché era giusto che fosse così.E' una cosa nostra, di noi aquilani.
Quale pensa sarà la differenza della reazione nel vedere le foto tra i romani e gli aquilani?
Chi non ha vissuto il terremoto, pur non riconoscendosi nel volto, sa che siamo aquilani, la loro mente torna a L’Aquila ed è come se vedessero le macerie e le rovine. Si crea in loro una sorta di proiezione data dai racconti e dai media che gli permette di leggere tra le righe dei volti, tra le espressioni. Per quanto riguarda i miei concittadini, la sera della presentazione di Roma ce ne erano molti e la tensione era alta: probabilmente hanno visto lo stesso terremoto che hanno vissuto con una chiave di lettura diversa e questo li ha sorpresi, adesso sono curioso di sapere se passerà questo messaggio anche a L’Aquila.
Nella terza sezione della mostra utilizza una tecnica che mette in luce, rughe e lineamenti, dunque una ricerca di quello che nella nostra società è sempre più considerata come imperfezione e che si cerca di nascondere in tutti i modi nella fotografia riacquista la sua importanza?
Le rughe significano per me che il tempo passa ovviamente, le ho portate all’eccesso per avere più posti nei quali scrivere. In questa fase, a me l’estetica in senso lato non interessa, nessuna persona che ha vissuto il terremoto rimarrà indenne dal terremoto. Un volto senza rughe è un’irrealtà, è di una persona che non ha nulla della sua vita precedente al terremoto e che del terremoto non ha subito nulla, un’ameba fondamentalmente e io non fotografo le amebe ma gli essere umani.