“L’Aquila è una città in evoluzione: dovrebbero esserlo tutte le città, in un mondo nel quale il contesto cambia così rapidamente che lascerà impreparati moltissimi territori. Dovremmo fare tesoro della nostra esperienza, del sentirci in transizione, di non avere un obiettivo vicino ma solo il senso dell’approssimarci ad un obiettivo che, man mano, siamo chiamati a riformulare”.
E’ una lettura nient’affatto scontata, dieci anni dopo l’evento che ha cambiato la storia contemporanea della città; d’altra parte, Paola Inverardi ha insistito e molto, in questi anni, sulla necessità di uscire dal cono d’ombra dell’emergenza, di vivere la ricostruzione come una quotidianità da volgere in positivo, da cogliere come una opportunità. L’hanno ascoltata in pochi, purtroppo.
Di fatto, il decennale segna la fine del mandato di Inverardi come Rettrice dell’Università degli Studi dell’Aquila: lascerà il suo ufficio a Palazzo Camponeschi, nel cuore della città, il prossimo 30 settembre. “Mi sono insediata nell’ottobre 2013: l’Ateneo aveva ancora un anno di gestione emergenziale, significa che eravamo regolati, come funzionamento, da un accordo di programma col Miur che era lo stesso stipulato a maggio del 2009. In sostanza, fino al 2014 siamo stati 'protetti' con misure emergenziali; evidentemente, un periodo di tempo troppo lungo per una Università che, sin dall’ottobre 2009, in qualche modo era riuscita a darsi un assetto quasi normale. All’inizio dell’anno accademico 2009/2010, lo ricorderete, l’attività didattica era ripresa regolarmente sebbene in luoghi fisici diversi, almeno per la metà delle strutture”.
Per sei anni, gli studenti iscritti all’Univaq non hanno pagato le tasse: “abbiamo ricevuto un rimborso forfettario, col fondo di funzionamento ordinario – ricorda Inverardi – fermo al 2009; in un momento in cui il sistema universitario nazionale cambiava, si modificava, affrontando la rivoluzione introdotta dal così detto Decreto Gelmini, l’Ateneo restava congelato. A posteriori, posso dire che l’aspetto più negativo che ho ereditato è stata la mancanza di fiducia verso la nostra Università: sebbene fossi stata eletta con un programma preciso, in discontinuità rispetto al passato, allorquando iniziai a fare scelte apparentemente forti – relativamente forti, dico io: reintrodurre una tassazione che avremmo dovuto ripristinare comunque nel 2014 non era così impensabile; rientrare nei parametri di sostenibilità dei corsi di laurea, così da offrire una didattica adeguata alle risorse disponibili, era obbligato – ho percepito, persino nell’amministrazione, la paura dell’incognito: che cosa succederà? Una mancanza di fiducia fortissima che si accompagnava ad un poco di disaffezione”. Inverardi porta un esempio, tra gli altri, banale forse ma indicativo: “Facevamo pochissimo orientamento, pochissima attività di promozione della nostra didattica e della nostra ricerca: pagavamo lo scotto del contesto, certo, ma ci si diceva che, in fondo, gli studenti c’erano. In realtà, c’erano come numeri ma non c’erano fisicamente. Avevamo tassi di inattività e di abbandoni altissimi: pensate che oggi, pur essendo scesi da punte di abbandoni che arrivavano al 30% sotto il 10%, restiamo ancora un poco sopra la media nazionale. Le misure che abbiamo introdotto hanno significato fatica: non è stato facile riabituare il corpo studentesco a pagare le tasse. C’è voluto un po’ di tempo per tornare alla normalità, per scoprire, poi, che il nostro nucleo di studenti c’era e continuava ad esserci: anzi, ha costituito la base per una crescita costante, sebbene lenta, con una ridistribuzione dei laureati all’interno dei vari corsi di laurea. Il problema non era tanto il numero complessivo di iscritti: piuttosto, c'erano aree storicamente di crescita, tipicamente ingegneria, dove avevamo perduto tanti studenti compensati dalle iscrizioni ai corsi dove non avevamo i numeri programmati. Non era la stessa cosa: c’era, evidentemente, una perdita secca in alcune aree che stiamo pian piano recuperando”.
Oggi le attività di orientamento e d’avvicinamento dei ragazzi e delle ragazze delle scuole superiori, di promozione dell’Ateneo – si pensi alla Notte dei Ricercatori, ai mercoledì della cultura, a Pint of Science – “sono patrimonio della nuova Università”, sostiene Inverardi. “In qualche modo, ci siamo detti che sì, siamo in un territorio in transizione che comporta indubbi problemi, ma possono esserci anche vantaggi a formarsi in una città come la nostra; stante il fatto che la formazione era la stessa di prima, la stessa che avremmo potuto fornire in condizioni di ‘normalità’ – sebbene abbiamo prodotto enormi investimenti nella didattica e nella ricerca – abbiamo tentato di far vivere agli studenti la condizione della città in ricostruzione come elemento attivo di formazione. Scommessa in parte riuscita e in parte no”, riconosce la Rettrice.
“Abbiamo istruito degli stage con l’Ance per i ragazzi più impegnati nei settori della ricostruzione, abbiamo finanziato borse di studio per far collaborare gli studenti col Comune, con i diversi Enti, con gli ordini professionali: abbiamo cercato di aprirci il più possibile, e credo ci venga riconosciuto. L’Università è aperta, è un luogo al quale naturalmente si va per chiedere sostegno, che si tratti di una attività culturale, imprenditoriale o anche semplicemente per informarsi. Aver voluto testardamente tornare qui, a Palazzo Camponeschi, sta dentro questo ragionamento: restituisce l’immagine di un Ateneo che sta nella città, che è parte della città e lavora con la città. Ripeto: credo che oggi ci venga riconosciuto, così come è molto più riconosciuto il ruolo degli studenti: abbiamo lavorato con fatica per cambiare il paradigma di che cosa significhi, per una città, avere una Università. Non significa avere potenziali customer, potenziali clienti per l’affitto delle abitazioni, per i pub o per le varie attività economiche; significa avere risorse umane fondamentali per la crescita, giovani, disponibili e creative. E’ questo che fa una città ricca”.
D’altra parte, migliaia di studenti transitano per questo territorio, più o meno costantemente, e lo contaminano necessariamente: “farlo percepire, cambiare il rapporto economico tra città e Università, è la sfida che continuiamo a mantenere preminente”, ribadisce Inverardi. Che aggiunge: “E’ visibile come non ci sia attività economica nuova che s’è impiantata sul territorio senza essere passata prima da noi. Si passa da noi perché l’Università è il soggetto che forma, che ha la disponibilità di risorse umane di pregio, uno strumento straordinariamente attrattivo per chi vuol venire a fare davvero economia sul territorio”.
In questi anni, la risposta che l’Università ha avuto al suo lavoro di apertura al territorio non è stata all’altezza degli sforzi prodotti dall’Ateneo. “Ci siamo confrontati con tutti, dagli ordini professionali alle associazioni economiche e culturali: abbiamo manifestato la nostra volontà di collaborare, di finanziare le attività degli studenti affinché avessero la possibilità di stare dentro i processi: in alcuni casi la sfida è stata colta, in altri no. Dal punto di vista dei servizi, poi, non abbiamo ricevuto un’attenzione particolare piuttosto episodica. Avremmo potuto avere un accordo di programma col Comune o con la Regione, per definire un insieme di iniziative che ci si impegnava reciprocamente a mettere in campo: non l’abbiamo avuto. Le amministrazioni locali sono state ripiegate su sé stesse: abbiamo fatto tante iniziative insieme ma sempre episodiche, non dentro un assetto programmatico definito. Forse i tempi non erano maturi, forse siamo mancati anche noi: di certo, esiste un problema di risorse umane disponibili. Faccio un esempio: avevo il pallino di realizzare un asilo, con l’allora assessore Emanuela Di Giovambattista ci abbiamo lavorato individuando persino il luogo giusto: ci vogliono le risorse per rendere un progetto concreto, però, per definirlo, trovare i fondi, portare avanti attività che, in alcuni casi, diventano insormontabili stante la mole di lavoro da fare. Si è vivacchiato e non abbiamo identificato delle strutture di raccordo che fossero in grado di rendere davvero concreti i progetti che pure avevamo abbozzato. Alcune iniziative le stiamo portando avanti; si pensi alla Fondazione, al collegio di merito per destinare alloggi del patrimonio comunale agli studenti meritevoli: sono fiduciosa che chiuderemo il progetto. Tuttavia, ci sono delle resistenze e, d’altra parte, si praticano strumenti che non esistevano e bisogna avere il coraggio di metterli in pratica”.
Paola Inverardi lo ribadisce: manca una struttura territoriale capace di presentarsi con una offerta a 360 gradi. E’ lì che sta il nodo per un territorio che vorrebbe ripensarsi come luogo dell’alta formazione, della cultura e della ricerca. “Le iniziative ci sono, dalle attività dell’Università al Gssi, passando per i Laboratori del Gran Sasso, l’Infn e così via: iniziative che dovrebbero trovare il loro senso all’interno di un quadro che, tuttavia, ancora non c’è. Così, restano l’insieme di singole iniziative. Uno studente sceglie un luogo piuttosto di un altro non per le residenze, le mense, i trasporti, bensì per il tessuto produttivo, culturale e sociale, sceglie laddove trova un sistema integrato. Ma questo non si costruisce a tavolino, si pratica nella prassi quotidiana lavorando insieme per costruire una connessione più stretta. Oggi gli ‘strumenti’ ci sono ma sono lascamente connessi: riempire questi vuoti per costruire maglie più strette tra i diversi soggetti è il compito che dovremo darci per i prossimi anni”.
Di nuovo, un esempio forse banale ma che restituisce il senso del ragionamento: “abbiamo deciso di celebrare le lauree di sabato; la decisione è stata prima accolta favorevolmente, poi criticata: le solite storie aquilane. Ebbene, all’inizio siamo stati noi a sollecitare la Camera di Commercio affinché si offrissero dei pacchetti per i familiari degli studenti; l’abbiamo fatto, siamo stati criticatissimi: sul sito dell’Ateneo avevamo pubblicato una lista di alberghi e ristoranti aderenti che offrivano, per esempio, l’ingresso gratuito al Munda piuttosto che altri servizi aggiuntivi. Ci hanno accusati di fare pubblicità alle attività economiche. Eppure, in un sistema coeso certi meccanismi dovrebbero scattare naturalmente: non dovremmo essere noi a promuoverli”.
Forse, la fatica più grande è stata proprio quella di determinare un cambiamento culturale su questo territorio: “rispetto ad una città che troppo spesso ha denunciato mancanza di visione, il paradosso è che ogni qual volta abbiamo provato a metterla in campo abbiamo trovato tantissime resistenze, quantomeno inerzia. Penso ai mercoledì della cultura: abbiamo faticato, e non poco, a promuoverli. Ci siamo proposti, abbiamo insistito e oggi funzionano: non c’è mai stata, però, la richiesta di farli al martedì, per esempio, o di organizzare iniziative simili altrove. Un altro esempio, i quarti d’ora accademici: all’inizio eravamo in pochissimi, oggi non riusciamo a soddisfare le richieste. Tuttavia, l’idea di fare in modo che questa iniziativa rappresentasse un seme per connettere il tessuto musicale aquilano col mondo universitario; l’Università dovrebbe essere percepita come un occhio, una lente d’ingrandimento sulla città: a L’Aquila la musica c’è, esiste, volevamo renderlo visibile agli studenti mettendoli in contatto con le Istituzioni e le associazioni musicali. E’ accaduto soltanto in parte. Ci vuole tempo: noi insistiamo e continuiamo a investire”. A L’Aquila ci sono risorse importanti, Inverardi lo ripete, “e riusciamo a farlo percepire ai ragazzi: anche questa è una capacità che non avevamo prima. E’ uno dei frutti del terremoto, il frutto del sentirci in transizione”.
Più prosaicamente, tornando alla ricostruzione fisica delle strutture, l’Università si è riorganizzata su tre poli definitivi sebbene ci siano ancora edifici da recuperare. “Abbiamo ottenuto i finanziamenti per il recupero completo delle strutture, anche quelle acquisite dopo il terremoto come l’ex San Salvatore, un risultato estremante gratificante per l’intero Ateneo", rivendica Inverardi. "Parliamo di 112 milioni di euro”.
Per ciò che attiene Palazzo Carli, “sono in corso di affidamento i lavori di messa in sicurezza; poi, dovrebbe partire rapidamente l’iter per la progettazione esecutiva sulla base del progetto preliminare già acquisito”. Sarà un incubatore di imprese innovative. Per l'ex San Salvatore, invece, c’è il masterplan approvato in Consiglio comunale: “abbiamo sottoscritto l’accordo tra tutti i soggetti coinvolti, è l’unico esempio concreto di ripensamento di un’area della città. Anche lì, si dovrebbe partire rapidamente. Il progetto è ambizioso: costruire un polo bibliotecario 4.0, un grande luogo di fruizione delle informazioni in senso lato, aperto 24 ore al giorno. Avevamo contatti con l’Archivio di Stato che, però, ha deciso di andare altrove. Avevamo avanzato anche una proposta concreta per l’ex Biblioteca provinciale ma sembrano esserci altri intendimenti, anche se non ho capito da parte di chi. Si tratta di un esempio di miopia: non ci si pone mai il problema che questi luoghi debbono essere gestiti, con risorse umane e finanziarie. La proposta era di mettere insieme le forze per poter mantenere attivo un polo al passo coi tempi della città del 2030. Noi, la nostra biblioteca la faremo comunque”. Sul polo di Roio, infine, sono avviate le procedure per l’affidamento dei lavori; anche per la ex sede di economia i processi sono in fase piuttosto avanzata: si dovrebbe andare a gara in tempi rapidi. “Ci sono, poi, altri interventi minori: l’ex centro di calcolo, per cui è prevista la demolizione e ricostruzione, e la palazzina di San Sisto, anche questi finanziati. C’è un cronoprogramma di 3 anni che, tuttavia, avrà tempi più lunghi per le difficoltà del Provveditorato”. Intanto, martedì prossimo verrà inaugurata la mensa di economia, ad Acquasanta, che in realtà è già attiva.
Insomma, chi subentrerà alla Rettrice – si sussurra di una sfida tra Carlo Masciocchi ed Edoardo Alesse – troverà le opere finanziate e i processi avviati.
E Paola Inverardi, che progetti ha per il futuro? “Torno a fare la professoressa di informatica: avrei ambizioni di dedicarmi ad uno spin off, staremo a vedere. Non mi sento di dire che vorrei assumere altri impegni: ho 62 anni, alla mia età gli anni hanno un peso diverso che a 40. Per fare alcuni tipi di mestiere, tipicamente il mestiere della politica, credo ci voglia uno spazio temporale più ampio, con più prospettiva. E poi, sono i giovani a doversi impegnare. Tuttavia, credo di aver maturato un’esperienza importante, di poter essere una risorsa per il territorio, di sostegno però e non in prima linea. E di questi anni, non credo mi mancherà nulla: per me, la parte pubblica è sempre stata un impegno pesante. Vivo con profondo senso di responsabilità l’immagine pubblica e, quindi, non ho mai affrontato gli impegni con superficialità”.