Tra le tante foto scattate a Genova durante il G8, ce n’è una che fece il giro del mondo, ripresa da molti giornali, sia nazionali che internazionali (il manifesto la pubblicò in prima pagina), divenendo una delle istantanee più iconiche delle manifestazioni e dei fatti di quei giorni.
Nell’immagine, si vedono quattro persone, due donne e due uomini (ma uno dei due è poco più che un ragazzino), inermi, accovacciate contro un muro, terrorizzate, smarrite, incredule.
Una delle due donne si tiene la testa in una smorfia di dolore. Il ragazzino è rannicchiato su se stesso e ha lo sguardo fisso, perso nel vuoto. In primo piano, l’agente con indosso la divisa della guardia di finanza che li ha appena picchiati e manganellati, si allontana, il volto reso irriconoscibile dal casco e dalla maschera antigas.
E’ una delle foto che raccontano meglio, forse, di qualsiasi analisi, ricostruzione o resoconto scritto quel che accadde vent’anni fa, la repressione brutale e cieca che le forze dell’ordine perpetrarono ai danni di manifestanti pacifici, "la più grande sospensione dei diritti democratici in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale" come l’ha definita Amnesty International.
Due delle persone immortalate in quella fotografia sono aquilane. Si chiamano Nicoletta Bardi e Mario Alaggio.
Abbiamo chiesto a Nicoletta, spezzina di nascita ma aquilana di adozione, di rivivere quei momenti e di raccontarci la sua testimonianza.
Nicoletta, partiamo dalla foto.
Oltre a me e a Mario Alaggio, che all’epoca facevamo parte di Amnesty International, ci sono mio nipote Lorenzo, e Celia Pereira, una mia amica argentina che ha vissuto e lavorato tanti anni all’Aquila. Mio nipote nel 2001 aveva 17 anni, faceva parte di un gruppo di scout cattolici. Ero passata a prenderlo a La Spezia per portarlo con me ma se avessi saputo quello che sarebbe successo ovviamente non l’avrei fatto venire. Eravamo stati appena manganellati da un agente della Guardia di Finanza. Nella foto si vede bene che tengo mio nipote per la maglietta. La mia paura, in quel momento, era che potesse scappare. Se l’avesse fatto, lo avrebbero inseguito e massacrato, come fecero con altri. Celia invece si tiene la testa perché le avevano appena dato un calcio.
Ricordi dove eravate e che giorno era?
Era sabato 21 luglio, il giorno dopo la morte di Carlo Giuliani. All’epoca vivevo all’Aquila già da vent’anni ma ero arrivata a Genova direttamente da La Spezia, insieme a mio nipote. In quel momento stavamo passando con il corteo sul lungomare, nel punto dove si svolta verso la stazione. Era un corteo assolutamente pacifico, ricordo ancora che vicino a noi c’erano quelli della Lipu, gli scout e le associazioni di volontariato, ma anche disabili e persone anziane. A un certo punto, dal nulla, spuntarono i black bloc, che ruppero il corteo e si misero a sfasciare tutto. Poco dopo arrivarono le forze dell’ordine ma anziché caricare i black bloc si misero a manganellare indistintamente noi manifestanti, anche gli anziani e i disabili. Quando vedemmo arrivare la polizia, la prima reazione fu quella di sederci per terra con le mani alzate contro il muro che delimitava la strada. Nonostante fossimo completamente inermi, ci caricarono lo stesso. Noi ci prendemmo un bel po’ di manganellate, a Celia diedero un calcio in testa ma vicino a noi c’erano due ragazzi a cui andò molto peggio, tanto che persino il finanziere che ci stava manganellando a un certo punto disse al collega che stava esagerando.
Cos’altro ricordi di quei momenti?
La grande paura, anche perché non sapevamo cosa fare. Eravamo intrappolati. Volevamo andare via di lì ma non potevamo muoverci, perché il corteo continuava a scendere, e quindi non potevamo indietreggiare. Da una parte, c’era il mare e dall’altra il muro, se provavi a scappare ti correvano dietro e ti pestavano. Ricordo che qualcuno provò a rifugiarsi sugli scogli ma venne inseguito e picchiato anche lì. Si sentivano i poliziotti ripetere ‘Dovevate stare a casa’. Dopo molto tempo riuscimmo a raggiungere la stazione, avanzando come i bambini che giocano a nascondino, spostandoci velocemente non appena vedevamo che non c’erano forze dell’ordine nei paraggi.
C’era, tra di voi, il sentore o la sensazione che potesse succedere tutto quello che poi effettivamente accadde?
All’inizio no, anche perché il giorno prima della morte di Carlo Giuliani, il primo giorno del G8, c’era stata una bellissima manifestazione dei migranti. Però devo dire che quando partì il nostro corteo ci accorgemmo subito che stava succedendo qualcosa di strano, ricordo che tra i manifestanti si aggiravano diversi poliziotti in borghese. Anche la mia amica Celia, che pure era scappata dall’Argentina durante la dittatura, rimase scioccata, perché non immaginava di rivivere anche in Italia certe situazioni. Di Bolzaneto e di molte altre cose che accaddero venimmo a sapere dopo, una volta tornati all’Aquila.
Avete sporto denuncia per l’aggressione?
Sì ma considerato tutto quello che poi venne fuori, cadde nel nulla. Subito dopo il G8, ci furono anche delle denunce collettive, si mosse Amnesty, ma tutto venne messo a tacere anche perché a settembre ci fu l’attentato alle Torri Gemelle e questo impedì che ci fosse un vero dibattito su quanto era accaduto, almeno nell’immediato. Una vera elaborazione venne fatta molti anni dopo anche se, come sappiamo, ci sono ancora tanti punti oscuri.
Sei d’accordo con l’analisi secondo la quale quella repressione segnò un passaggio storico, annientando il movimento che era nato due anni prima di Genova, a Seattle?
Il movimento che partecipò a Genova aveva tante anime, era molto variegato ma non aveva dei veri e propri leader. Era questa la sua forza. Ed era un movimento che stava crescendo. Dopo Genova ci furono altre mobilitazioni ma quella spinta positiva andò progressivamente scemando. L’entusiasmo, la voglia di futuro, la speranza di cambiare qualcosa scomparvero o comunque si indebolirono. Da questo punto di vista, chi ordinò e mise in atto quella repressione riuscì benissimo a ottenere quello che voleva.