Lunedì, 19 Luglio 2021 17:47

Genova, vent'anni dopo: il racconto di chi c'era. "Tornammo traumatizzati, incapaci di parlare d'altro"

di  Enrico Perilli

Partimmo per Genova dalla stazione di Pescara dove arrivammo da L’Aquila in tarda mattinata.

Il primo che incontrammo fu Maurizio Acerbo: megafono alla mano, incalzava una piccola platea condannando le frasi di Massimo D’Alema, le famose parole di D’Alema, quando sostenne che avrebbe voluto un paese normale.

Oltre ad Acerbo stazionavano i dirigenti sindacali della CGIL, preoccupati e spaventati dagli scontri già in atto. Alcuni sostenevano che bisognava partire, altri riferivano di treni bloccati e rispediti indietro.

Partimmo senza indugio, arrabbiati e motivati.

Una nutrita pattuglia dall’Aquila aveva già raggiunto Genova, altri stavano per farlo: i Giovani Comunisti, la Sinistra Giovanile, la Fiom, la CGIL provinciale, militanti dei DS (del correntone…), di Rifondazione.

I mesi prima, gli anni prima era stati febbrili: la manifestazione a Napoli, repressa a piazza del Plebiscito, considerata la prova generale di quello che poi avvenne a Genova; il movimento no-global, un arcipelago che univa le associazioni cattoliche ai centri sociali più radicali, le associazioni dei consumatori agli anarchici; lo zapatismo, con le parole e le foto del subcomandante Marcos che vegliava su di noi e che aveva portato molti di quel movimento, me compreso, ad andare in Chiapas a vedere da dentro i municipi autonomi.

Si dibatteva dentro e fuori i partiti sul neoliberismo, sulla globalizzazione, su come decifrarla e su cosa aspettarsi. Senza saperlo, la risposta sarebbe arrivata qualche giorno dopo con caschi e manganelli, coperture e depistaggi, indifferenze e malcelate gioie nel vedere il sangue dei no-global scorrere abbondante.

Appena scesi alla stazione di Genova Quarto, un reparto mobile della polizia, oltre 50 mezzi, ci aspettava all’uscita accogliendoci con il dito medio e i lancia-lacrimogeni puntati. Eravamo appena arrivati, capimmo subito cosa ci attendesse. Furono giorni di corse, fughe, slalom, ci sparpagliavamo per poi ritrovarci.

Finii isolato da una carica, insieme a Francesco Marrelli, in un sottopasso: alle spalle auto in fiamme, di fronte uno squadrone di poliziotti armati e bardati come guerrieri medioevali; non avevamo via di fuga: passare tra le auto in fiamme o subire la carica della polizia che certo non avevamo meritato, trovandoci lì in quanto fuggiaschi di un’altra carica, immotivata, sul corteo. In quel momento una voce ci chiamò; era Curzio Maltese, grande editorialista, amico personale e della Sinistra Giovanile aquilana: ci fece scavalcare una balaustra ed entrare nell’albergo dove era barricato, eravamo salvi.

Raggiungemmo gli altri a sera. Carlo Giuliani era stato ucciso, e, incredibilmente, iniziavano le torture: Diaz, Bolzaneto.

Tornammo da Genova traumatizzati, incapaci di parlare d’altro, soli, in quanto l’opinione maggioritaria sosteneva che le forze dell’ordine erano state costrette a difendersi e a difendere la città. Arrivavano notizie di genitori disperati che avevano smesso di avere notizie dei figli e delle figlie, li ritrovarono muti, picchiati, molestati, all’uscita di carceri e caserme liguri e piemontesi.

I partiti di destra esultavano; Gianfranco Fini, probabilmente presente a Genova, altro mistero italiano, ringraziava chi in quelle ore stava torturando e insabbiando. La borghesia conservatrice si indignava per come era stata ridotta Genova. Walter Veltroni un po’ condannava le violenze da qualsiasi parte provenissero – generico e vacuo come sempre - un po’ cantava gli orizzonti magnifici della globalizzazione, i cui epigoni erano sbarcati a Genova in quei giorni.

La sinistra, da Rifondazione al correntone DS tenne il punto, denunciò, si indignò, raccontò.

Il solo Massimo D’Alema, tra le fila della sinistra moderata (si perdoni l’approssimazione) parlò in Parlamento, coraggiosamente, di repressione in stile cileno; Amnesty International denunciò una sospensione dei diritti umani.

Ci vollero anni, dieci, dodici, affinché venisse fuori la verità su Genova: repressione, torture, violenze, depistaggi, insulti alle vittime e carriere folgoranti per i colpevoli di violazione dei diritti umani. A volte, tuttora, mi ritrovo a ricordare le tante persone che non mi hanno creduto: vorrei chiamarle una per una e chiedere loro di scusarsi; poi penso che in questo momento stanno commettendo lo stesso errore, complici di nuovo di informazione a pagamento - come era solito dire Marcos intendendo mezzi di informazione privati, di grandi gruppi industriali che hanno interesse nel manipolare le idee e le scelte - nel diffamare Cuba, nel sostenere acriticamente Israele, nell’amare incondizionatamente Draghi.

Per provare a spiegare le ragioni della repressione partirei proprio dal senso del governo Draghi.

Il neonato governo di quasi unità nazionale nasce su due basi: l’incapacità della classe politica di avere una visione e una capacità di rappresentare i bisogni e gli ideali della popolazione, di organizzare il governo e l’opposizione; la necessità di grandi gruppi economici, pubblici e privati, di gestire i miliardi del Recovery Found: ne è dimostrazione la nomina di ministri tecnici, i soli ad amministrare il bottino, tutti espressione di gruppi di potere. Il movimento di Genova, nelle sue mille sfaccettature, aveva intuito che la globalizzazione avrebbe causato un aumento delle disuguaglianze, l’accumulazione delle ricchezze in poche mani, la restrizione degli spazi democratici con la conseguente trasformazione delle democrazie in oligarchie, l’acuirsi fino a un punto di non ritorno della questione ecologica, l’esplosione di guerre, con conseguente miseria e migrazioni.

I no-global chiedevano a nome di milioni, miliardi di persone, un nuovo umanesimo avendo capito che il neoliberismo trionfante avrebbe travolto, impoverendolo e rendendolo più ingiusto, l’intero sistema di governo di tutti i paesi del mondo. Di conseguenza, anziché prefiggersi di regolare l’economia alla società, per interesse e/o per debolezza, la politica si impegnò a adattare la società all’economia; da qui il tramonto della politica e il relativo scadimento delle classi dirigenti, divenute “casuali” (cit. D’Alema) oppure espressione di gruppi di potere economici che nel frattempo hanno messo le mani su partiti e stampa.

Il resto sono ipertrofiche e tragicomiche manifestazioni di narcisismo, dovute a smisurate ambizioni e vuoti di teoria.

Chi erano dunque i no-global? Erano quelli che sognavano e si battevano per un nuovo umanesimo mentre Matteo Renzi si preparava a giocare alla Ruota della Fortuna, abitudine mai dismessa, e Mario Draghi gestiva miliardi per conto delle banche e dei potenti, abitudine, anche per lui, mai dismessa.

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