di Jacopo Intini - Striscia di Gaza. Dopo sedici giorni dall’inizio dell’operazione Protective Edge, il bilancio delle vittime e dei feriti non fa che aggiornarsi di ora in ora. 693 i morti, 4519 i feriti e migliaia gli sfollati. Questo è l’ultimo aggiornamento diffuso dall’agenzia di stampa Nena-News il 23 luglio 2014. Ma cosa si cela dietro questi numeri tutti lo sappiamo, anche se poco se ne parla; quei numeri sono nomi, vite e storie stroncate, perse nella polvere e nel fuoco dei bombardamenti, destinati a rimanere un ricordo e una vergogna troppo spesso censurata dalle pagine dei giornali e dai libri di storia. L’offensiva, lanciata dal premier israeliano Netanyahu l’8 luglio scorso, rappresenta l’ennesimo caso degenere di un conflitto che si protrae da circa sessant’anni, pronto a sopperire profondamente, ancora una volta, nelle coscienze della comunità internazionale come prova delle ormai ovvie debolezze diplomatiche delle Nazioni Unite e della sconfitta democratica del mondo occidentale.
Margine protettivo è solo l’ultima delle otto operazioni che lo Stato di Israele ha messo in atto nella Striscia negli ultimi dieci anni. Occorre ricordare l’Operazione Arcobaleno (2004), Giorni di Penitenza (2004), Piogge Estive (2006), Nuvole d’autunno (2006), Inverno caldo (2008), Piombo Fuso (2008-2009), Colonna di Nuvole (2012). Ostentato da tutti come l’unica democrazia nel Medio Oriente, baluardo USA, unico fronte contro l’avanzata delle politiche islamiste dei Fratelli Musulmani, lo Stato di Israele è responsabile di non aver rispettato, più e più volte, le norme sul Diritto Internazionale e Umanitario sancite dalla IV Convenzione di Ginevra e dalle varie Risoluzioni ONU. È sulla base di queste violazioni che possiamo rinvenire, nella politica israeliana, molteplici connivenze e responsabilità da parte sia delle Nazioni Unite che dell’Unione Europea stessa. C’è da dire che, a differenza dell’ONU, l’UE non è obbligata a garantire il mantenimento della pace e della sicurezza a livello mondiale, pur essendo uno dei principali attori nelle relazioni internazionali; a questo proposito non possiamo rimproverarle una politica fatta di negligenze.
Nonostante questo, è obbligata dal diritto internazionale a "garantire, entro i limiti delle sue capacità, il rispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione, dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale umanitario", anche sulla base degli impegni assunti con il Trattato dell’Unione Europea e l’Accordo di associazione Euro-mediterranea stipulato nel 1995. Tale ultimo accordo dichiara all’art. 2 che "Il rispetto per i principi democratici e per i diritti umani fondamentali [...] deve ispirare le politiche nazionali e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale di questo accordo". Contrariamente a ciò, l’UE ha dimostrato negli ultimi anni di aver adottato una linea di favoreggiamento verso le politiche di Israele, non apponendo un dovuto controllo e non intervenendo sufficientemente in difesa dei diritti e delle libertà fondamentali palestinesi, macchiandosi, in questo modo, di assistenza illecita, sia attiva che passiva, nei confronti delle violazioni del diritto internazionale da parte dello stato ebraico.
Oltre all’inerzia della comunità europea, strettamente connessa alle tacite connivenze politiche di tali violazioni, si aggiunge il mantenimento di relazioni militari, commerciali e culturali che supportano, direttamente, l’economia israeliana, alimentando, così, l’opera di occupazione e di colonizzazione dei territori palestinesi. Svolgendo, dunque, un ruolo di assistenza attiva in atti illegali, l’Unione Europea si rende corresponsabile delle forti inosservanze del diritto internazionale da parte di Israele. Inoltre, fitti sono gli scambi di tipo commerciale che vedono coinvolte, in progetti avviati nei territori palestinesi occupati (TPO), imprese europee e israeliane. Chiari esempi sono la gestione della discarica Tovlan nella valle del Giordano, da parte di Veolia Water, la costruzione della linea tranviaria a Gerusalemme Est, il cui progetto è stato assegnato al consorzio CityPass coinvolgendo le società francesi Veolia e Altsom e la partecipazione della ditta italiana Pizzarotti nella realizzazione dell’alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv. Oltre a ciò, imponente è l’esportazione in Israele, da parte degli Stati membri dell’Unione Europea, di armi e componenti, velivoli militari e strategie, le stesse che hanno portato ai 1400 morti Gazawi di Piombo Fuso e che ne stanno portando, speriamo non altrettanti, in questi giorni con Margine Protettivo.
Tra i maggiori fornitori europei di armi in Israele spicca proprio l’Italia in virtù degli accordi bilaterali, indicati come "Legge 17 maggio 2005 n° 94", di cooperazione tecnologica, militare e scientifica. Si parla di accordi costati al governo Berlusconi ben 181 milioni di dollari da spendere in tecnologie di interdizione, sorveglianza e guerra elettronica. A questi si vanno ad aggiungere i 18 milioni stanziati per la realizzazione di 52 progetti, firmati dall’allora ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, nel campo della cooperazione scientifica e tecnologica con gli Stati Uniti e Israele. La collaborazione italiana nell’industria militare israeliana è senza dubbio degna di nota, proprio in virtù del dramma che in questi giorni si sta consumando a Gaza. Agli accordi del 2005, i quali prevedevano misure sugli scambi nella produzione di armi, trasferimento di tecnologie, formazione ed addestramento, manovre militari congiunte e peacekeeping, se ne aggiunge un altro firmato nel 2012 durante il governo Monti, il quale prevede per Israele "la fornitura di velivoli per l’addestramento al volo e dei relativi sistemi operativi di controllo, mentre per l’Italia un sistema satellitare ottico ad alta risoluzione per l’osservazione della Terra e sottosistemi di comunicazione con standard Nato per alcuni velivoli dell’Aeronautica militare".
Il 15 luglio scorso Giorgio Beretta, analista dell'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e di Difesa, dichiara che nel 2012 l’Italia abbia rilasciato autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari verso lo Stato israeliano costate 470 milioni di euro (dati del Rapporto UE) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012 (dati Comtrade), più del doppio di quanto totalizzato dalle export di Francia e Germania, guadagnandosi così il posto di primo fornitore europeo d’armi a Israele. Insomma, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Le imprese interessate sono la Simmel Difesa, Beretta, Northrop Grumman Italia, Galileo Avionica, Oto Melara ed Elettronica spa. Il caso più recente risale proprio a qualche giorno fa. Mentre nella Striscia di Gaza si contavano le vittime, in gran parte donne e bambini, lo stabilimento italiano Alenia Aermacchi (Gruppo Finmeccanica) consegnava a Tel Aviv due M-346 (la cui copertura finanziaria è stata assicurata dal gruppo Unicredit), aerei addestratori, configurabili, però, come bombardieri leggeri.
La vendita di questi due aerei rientra negli accordi siglati nel 2012 e rappresentano il primo stock di una ordinazione di 30 velivoli militari destinati a sostituire i TA-4 Skyhawk di produzione statunitense, utilizzati anche nei bombardamenti di Gaza nel 2010. Chiare sono le implicazioni politiche derivanti da questi scambi. Lo spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale di Rete Disarmo: "Noi italiani vendiamo sistemi d’arma a una delle due parti in conflitto, quindi non siamo equidistanti e la nostra posizione come mediatori ne è inficiata".
C’è da aggiungere, infine, che il nostro Paese porterà a termine a breve un ulteriore scambio con Israele che costerà circa un miliardo di euro per un pacchetto comprendente droni e altro materiale bellico. Si prospetta un gran bell’affare per lo Stato italiano, già fortemente colpito dalla crisi mondiale e tormentato dalle manovre illusorie per il risanamento del debito pubblico. Ma c’è da stare tranquilli perché, alla fine, già sappiamo che il prezzo lo pagheranno, sempre e comunque, le vittime di Gaza.