di Jacopo Intini - Dalle strade di Parigi, dopo Charlie Hebdo, al Capitol Hill di Washington DC; il 3 marzo scorso il leader del Likud Israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto tappa, fra mille polemiche, negli Stati Uniti, per prendere parte al tanto atteso discorso del Congresso. "Bibi" è stato invitato, all'insaputa della White House, da John Boehner, presidente della Camera dei Rappresentanti, dopo che il presidente americano Barack Obama si era fermamente opposto all'intenzione del parlamento statunitense di imporre ulteriori sanzioni alla Repubblica Islamica dell'Iran. Questione molto dibattuta in questi giorni, dati i negoziati sul nucleare in corso a Ginevra tra la comunità internazionale e Teheran, che lo stesso Obama sta presiedendo.
Quello della "sicurezza" e dei rapporti con i "vicini di casa" rappresenta un tasto dolente nel programma elettorale di Bibi Netanyahu che questa volta ha percepito il rischio reale di una spaccatura nella linea politica con il suo alleato più stretto, da cui riceve ogni anno più di 3.1 miliardi di dollari destinati al programma FMF (Foreign Military Financing), che rappresenta dal 23% al 25% del budget di difesa israeliano, prestiti, sovvenzioni e stanziamenti per il Department of Defense. "Israele e gli Stati Uniti concordano che l'Iran non dovrebbe avere armi nucleari, ma non siamo d'accordo sul modo migliore per impedire all'Iran di sviluppare quelle armi". Questo quanto pronunciato dal presidente Netanyahu il 2 marzo durante la Conferenza sulla politica di AIPAC (American Israel Pubblic Affairs Committee), una delle più influenti lobby statunitensi pro-israeliane.
Ora si teme il gelo specialmente in vista delle elezioni anticipate in Israele il prossimo 17 marzo. I rapporti con gli USA infatti stanno attraversando una fase estremamente delicata, caratterizzata spesso da tensioni e diffidenze. Già scettica nei confronti dell'espansione degli insediamenti in Cisgiordania, l'amministrazione Obama è in parte condizionata dalle forti pressioni dell'opinione pubblica americana. Un esempio è la campagna pubblicitaria della AMP (American Muslims for Palestine) per l'interruzione degli aiuti americani ad Israele e la petizione per il boicottaggio del discorso di Netanyahu al Congresso previsto per il 3 Marzo, la quale ha raggiunto lunedì scorso ben 60mila adesioni (circa 75 deputati dell'ala democratica non hanno preso parte al discorso). Inaspettato, inoltre, anche il "no" dello stesso Presidente USA sull'intervento di Netanyahu, la cui visita negli Stati Uniti è stata percepita dalla Casa Bianca, in quanto organizzata senza la previa consultazione del presidente, come una evidente deviazione dai protocolli diplomatici.
Pressioni anche da parte dell’Europa tradotte con l'ondata di riconoscimenti, del tutto simbolici, dello Stato Palestinese da parte di numerosi parlamenti. Ultimo arrivato quello italiano che, dopo tre mesi di rinvii, ha approvato il 27 febbraio scorso, con 300 voti favorevoli, due seppur controverse mozioni presentate dal Partito Democratico e dal Nuovo Centro Destra. Il lavoro parlamentare, elaborato congiuntamente con Sinistra e Libertà, vincolerebbe, infine, la costruzione di uno Stato Palestinese al riconoscimento, da parte delle rappresentanze palestinesi stesse, dello Stato Israeliano e all’incerto destino del Governo di Unità Nazionale costituito da Fatah e Hamas. Non passano, invece, le mozioni del gruppo parlamentare PSI e del Movimento 5 Stelle per un riconoscimento unilaterale e senza condizioni da parte del parlamento italiano.
A queste si aggiungono le recenti pubblicazioni di testate come Al Jazeera e The Guardian sulle discusse affermazioni di Netanyahu alle Nazioni Unite nel 2012, riguardanti il processo di costruzione di armamenti nucleari da parte del governo iraniano. L'allarmismo di Netanyahu, che tre anni fa mise in guardia il mondo intero, sosteneva che il processo di produzione di testate nucleari da parte dell'allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad era giunto al 70% del suo completamento. Dati raccolti dall'intelligence israeliana nell'ottobre 2012, evidenziano invece tutt'altro: l'analisi redatta in questi documenti ha ragione di credere, infatti, che il governo iraniano non avesse avviato quel piano se non per scopi esclusivamente energetici disponendo di circa 100 chilogrammi di uranio arricchito ad un livello del 20%.
Sia la comparsa a Parigi che la standing ovation a Washington DC dimostrano come, ancora una volta, i riflettori siano puntati sul leader del Likud che quest'anno termina il nono anno del suo mandato come primo ministro israeliano alla Knesset. Emerge anche la questione di Gaza e dei Territori Palestinesi Occupati, divenuti per Benjamin Netanyahu un enorme palcoscenico su cui mostrare il suo pugno di ferro, strumento determinante nella sua scalata al consenso. Protective Edge, infatti, pur avendo ricevuto numerose critiche all'interno della società e della politica israeliana, è stato per Netanyahu un successo indiscusso che gli ha permesso la vittoria nei sondaggi sugli avversari politici Avigdor Lieberman (Israel Beytenu), attuale ministro degli Esteri israeliano e Naftali Bennett, ministro dell'Economia e degli affari religiosi (Jewish home party, Bayit Yehudi).
Infatti, secondo dati pubblicati il 5 Marzo dal Maariv Poll, su 49 seggi alla coalizione di destra israeliana, il Likud dovrebbe prenderne circa 23, 12 la Jewish Home Party, 5 la Israel Beytenu, nata nel 1999 da una scissione con il Likud e 8 il Kulanu di Moshe Khalon, uno dei principali sostenitori dell'annessione dei Territori Palestinesi Occupati a Israele. Dovrebbero essere 13, invece, i seggi alla coalizione unica dei partiti arabi, mentre, all'interno della coalizione di centro sinistra (42 seggi), oscilla tra i 23 e i 24 seggi (sui 120 totali) la Zionist Union che nei sondaggi continua a tenere testa al Likud di Netanyahu.
La coalizione pan-araba è una novità di queste elezioni e unisce realtà come Hadash, Ra’am-Ta’al e Balad, rappresentando così, secondo i sondaggi, la terza forza politica in Israele dopo la Zionist Union e il Likud. Non mancano momenti di tensione; martedì scorso durante un incontro sulla questione di genere presso il College of Law and Business a Ramat Gan, Artemi Kazarov, un attivista di estrema destra israeliano, sostenitore di Baruch Marzel del partito ultra-ortodosso Ha’am Itanu, ha aggredito la parlamentare Haneen Zoabi dell'Arab Joint List.
Al centro delle discussioni pre-elettorali spicca sicuramente il tema "immigrazione", cavallo di battaglia di Netanyahu che a fronte degli ultimi eventi in Francia e in Danimarca ne ha approfittato per invitare le varie comunità ebraiche europee a trasferirsi in Israele, che egli stesso ha definito la "loro casa". Il numero degli immigrati ebrei nello Stato Israeliano ha raggiunto quote pari alle 7mila persone solo nel 2014, mentre a seguito degli attentati a Parigi nel febbraio scorso, una stima per il 2015 parlerebbe di un numero che va dalle 10mila alle 15mila persone. Arriva, invece, il "no" secco della comunità ebraica danese il cui portavoce, Jeppe Juhl, risponde al primo ministro israeliano: "Siamo danesi, non scapperemo in Israele".
Le questioni sull'immigrazione vanno di pari passo con quella che è la questione abitativa israeliana che ha portato a riempire le piazze di movimenti di indignados. Solo quattro anni fa, migliaia di manifestanti affiliati alla sinistra radicale israeliana hanno rivendicato una nuova politica economica da parte del governo Netanyahu nelle piazze di Tel Aviv. Le proteste si conclusero con un atto estremo da parte di un senza tetto israeliano che, nella disperazione, si diede fuoco tra la folla. Infatti un ulteriore mandato al governo attuale preannuncia la costruzione di altri 279 mila alloggi dislocati tra Gerusalemme Est e i Territori Palestinesi Occupati, di cui circa 63 mila destinati ai nuovi coloni. Molti israeliani rivendicano il diritto alla casa in primis per loro, poi per gli immigrati.
In Cisgiordania è nuova escalation. I raid dell'esercito israeliano si sono intensificati notevolmente negli ultimi due mesi, portando all'uccisione il 23 febbraio scorso di Jihad al Jaafari, un ragazzo palestinese di 18 anni del Campo Profughi di Deheisha, Betlemme, mentre, a Gaza, sabato 7 marzo la marina israeliana ha aperto il fuoco su Tawfic Abu-Ryaleh, un pescatore palestinese di 25 anni, uccidendolo. Nei giorni scorsi lo Stato israeliano ha ridotto ulteriormente, per i palestinesi, l'area di pesca dalle 6 alle 4 miglia marittime. A Gerusalemme, in data 6 marzo, un ragazzo di 22 anni, prima di essere sparato dalle forze di polizia, ha investito con la sua macchina cinque soldatesse israeliane che sono rimaste ferite. La situazione rimane di alta tensione. I palestinesi arrestati solo nel mese di febbraio sono stati circa 285 di cui 30 minorenni. Intanto il ministro di difesa israeliano, Moshe Ya'alon, conclude un accordo di 2,82 miliardi di dollari con gli Stati Uniti per l'acquisto di altri quattordici F35. L'aviazione israeliana riceverà trentatré aerei militari tra il 2016 e il 2021. Ciò si è trovato a coincidere con massicce esercitazioni, svoltesi in Cisgiordania, che il 2 marzo scorso hanno visto impegnati circa 13mila riservisti israeliani, chiamati a prepararsi ad una nuova guerra a Gaza che rischia di scoppiare la prossima estate.
A due settimane dalle elezioni israeliane, le continue violazioni degli accordi da parte dello Stato di Israele hanno portato, sabato 7 marzo, il Presidente Palestinese Mahmoud Abbas ad interrompere ogni forma di cooperazione con lo Stato Israeliano sulla sicurezza, accordi redatti durante i negoziati di Oslo nel 1993. La decisione potrebbe condizionare, e non poco, la campagna elettorale di Netanyahu.