"Il silenzio uccide" è la conferenza che si è tenuta domenica nella Sala dei Comuni del Castello Estense di Ferrara, in occasione del Festival di Internazionale 2013. Protagonisti del dibattito sono stati Jonathan Whittal, responsabile della ricerca sull'azione umanitaria di 'Medici Senza Frontiere' (MSF), e Filippo Gaudenzi, giornalista e attuale caporedattore per la sezione cronaca del Tg1.
In tutto il mondo, specialmente in Africa Centrale e in Medio Oriente, sono tante e ben differenziate le crisi umanitarie che mietono vittime ogni giorno. Il conflitto del Darfur, la crisi politica e sociale che sta attraversando la Libia nel "dopo" Gheddafi e la guerra civile siriana, sono solo alcune delle più gravi emergenze umanitarie che il mondo sta vivendo. Tuttavia la percezione degli stati europei nei confronti di ognuna di queste complesse situazioni continua a essere alterata, a causa di una parziale e superficiale attenzione dei media nei confronti della cronaca estera.
Il grande pubblico, in Italia come nel resto d'Europa, spesso non ha le basi geopolitiche per decifrare gli avvenimenti che accadono al di fuori del proprio paese, scadendo, dunque, nella generalizzazione delle diverse crisi mondiali. "Agli utenti, delle grandi crisi umanitarie non importa nulla - ha esordito Filippo Gaudenzi - specialmente fra il pubblico televisivo. Dopotutto, in Italia, non riusciamo a essere solidali con i nostri concittadini, a trovare coesione fra nord e sud, figuriamoci quale empatia possiamo provare per altri paesi". Nonostante il grande pubblico, televisivo e non, tenda a 'subire' l'informazione, piuttosto che selezionarla, i media non migliorano la situazione. Spesso sono proprio le reti televisive e i giornali a proporre notizie facilmente 'vendibili', che garantiscano un alto livello di ascolti, ovvero un guadagno assicurato.
Finché i media non saranno disposti a rischiare un calo di audience per fornire un'informazione dettagliata e costante sulle emergenze umanitarie mondiali, la maggior parte della popolazione dei vari stati europei più difficilmente potrà raggiungere un livello medio di consapevolezza riguardo le vicende che interessano il resto del mondo. Lo stesso Jonathan Whittall, nel corso del dibattito, ha fatto presente la scarsa attenzione da parte delle varie redazioni giornalistiche - televisive e non - per i comunicati stampa che MSF invia dai vari paesi in cui svolge la propria attività di assistenza medica e di denuncia. "Non siamo sicuri che le parole siano sempre in grado di salvare vite, ma sappiamo con certezza che il silenzio può uccidere" ha detto Whittall con determinazione, citando le parole pronunciate il 10 ottobre del 1999 dall'allora presidente del consiglio internazionale di MSF James Obrinski, quando l'associazione si aggiudicò il Premio Nobel per la Pace.
StudenTown, a margine dell'evento, ha intervistato Jonathan Whittall.
Perché hai deciso, nel 2008, di iniziare a lavorare per Medici Senza Frontiere?
Sono convinto che il diritto all'assistenza medica e alla nutrizione siano di tutti, a prescindere da chi si tratti. Purtroppo spesso questi diritti basilari vengono prevaricati da interessi politici ed economici, e questo non dovrebbe accadere. Credo, dunque, che lottare per difendere il diritto alla vita sia non solo un mio dovere in quanto uomo, ma soprattutto una delle più grandi forme di resistenza ai cosiddetti 'poteri forti' a livello mondiale, che decidono arbitrariamente chi debba vivere e chi no.
Come sei entrato in Medici Senza Frontiere?
Ho iniziato a lavorare nelle sezioni di MSF in Sudafrica, paese in cui sono nato. Poi con il tempo mi sono spostato in Sudan, Pakistan, Barhein, Libia, Siria Afghanistan. Sono venuto a contatto con tantissime situazioni, tante emergenze diverse tra loro, aggravate talvolta anche da conflitti armati e guerre. Medici Senza Frontiere, oltre a fornire assistenza medica a popolazioni colpite da gravi conflitti e calamità naturali, svolge anche un importante e delicato compito di denuncia di tali emergenze umanitarie.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nel comunicare al mondo situazioni che fronteggiate?
L'ostacolo più grande è proprio parlare di ciò che sta accadendo nei vari luoghi in cui siamo presenti sul campo. A seconda della situazione politico-sociale che ci troviamo a fronteggiare, rischiamo di non poter portare avanti il nostro lavoro. Se parliamo di quello che sta accadendo in Sudan, per esempio, sappiamo che potrebbero esserci delle implicazioni che potrebbero impedirci di continuare a prestare assistenza. Se alziamo troppo la voce, denunciando avvenimenti scomodi per qualcuno che detiene il potere in quel Paese, in quel particolare contesto sociale, queste sono le conseguenze. Quindi spesso dobbiamo stare zitti per continuare a lavorare.
Come i media europei, in particolare quelli italiani, interpretano e poi diffondo i comunicati stampa che voi inviate ai vari canali d'informazione?
Ogni Paese europeo interpreta in maniera diversa le notizie che noi comunichiamo. Questo dipende dagli interessi politico-economici dei vari stati in una precisa parte del mondo piuttosto che in un'altra. Se si parla di una crisi in Somalia, ad esempio, i media francesi sono i primi a interessarsene, spinti dai legami economici che hanno con quel Paese. L'attenzione dell'Europa per le emergenze da cui sono travolte tante popolazioni estere, dipende da interessi strategici - politici ed economici. In Italia è difficile cercare di diffondere le notizie e far capire alla comunità quale sia la realtà attuale in tanti Paesi in cui stiamo operando come MSF, ma noi continuiamo e continueremo a provarci.