La mobilitazione per l'acqua ha assunto il carattere paradigmatico di battaglia per la partecipazione democratica alla gestione dei beni comuni. Un concetto, quest'ultimo, che, negli ultimi anni, ha ottenuto un successo crescente, anche in virtù della sua polisemia.
Ma che cos'è un bene comune? E, ammesso che esista una definizione univoca, l'acqua rientra in questa definizione?
Ma soprattutto, riusciranno, da una parte, le associazioni che fanno parte del Forum italiano dei movimenti per l'acqua e, dall'altra, i privati e i gestori a trovare un compromesso tra il rispetto dei risultati del referendum del 2011 e la necessità di coprire il costo dei finanziamenti, in un settore, quello idrico, che in Italia ha una grande necessità di investimenti?
Di tutto questo si è parlato ieri al Festival dell'Acqua, nel corso di due convegni ai quali hanno partecipato, nelle vesti di relatori, il vescovo ausiliare dell'Aquila Giovanni D'Ercole, il filosofo Giulio Giorello, l'economista e docente universitaria Laura Castellucci, il presidente del comitato italiano Contratto Mondiale sull'acqua Rosario Lembo, il presidente di Federconsumatori Rosario Trefiletti e il vice presidente delegato di Federutility Mauro D'Ascenzi.
Nel primo dei due simposi - intitolato Il concetto di bene comune nell'etica cristiana, nell'etica laicista e nella prassi socio-politica - facendo anche un lavoro di ricostruzione genealogica della nozione, i relatori hanno cercato di pervenire a una definizione il più possibile condivisa di bene comune. Un dibattito teorico interessante ma a tratti troppo astratto. Dal quale, comunque, è emerso, ancora una volta, come la visione laica e quella cattolico-cristiana si basino su presupposti molto diversi. Benché possano poi convergere su medesimi obiettivi.
Secondo D'Ercole, il concetto di bene comune è dedotto direttamente o indirettamente dalla fede, nell'ottica di una concezione dell'uomo e del mondo che li vede entrambi creature di Dio, ove però il creato è fatto per esaltare l'uomo. Il mondo è un dono di Dio e, in quanto tale, l'uomo deve prendersene cura.
Al contrario, secondo il laico Giorello, non sono state le religioni monoteiste a far nascere una consapevolezza ecologica ma la filosofia occidentale, l'illuminismo, la scienza; in particolare Darwin, che ha mostrato come l'uomo non sia il padrone del mondo ma solo un piccolo pezzo della vita.
Il tema dei beni comuni, ha detto Giorello, va affrontato tenendo saldi i valori illuministici, mettendo in atto il dettato della Costituzione e ispirandosi a un “individualismo cooperante”, in base al quale non si deve cadere in concezioni antiproprietarie troppo intransigenti, che possono sortire effetti opposti, perversi, degenerando in forme di autoritarismo, pur animato da buone intenzioni.
Molto più concreto e pragmatico è stato invece il ragionamento di Laura Castellucci, docente di economica politica e economia dell'ambiente all'università Tor Vergata. Da un punto di vista strettamente economico, ha affermato la docente, non può essere accettata la definizione di acqua come bene comune. L'acqua, infatti, è un cosiddetto bene dal consumo rivale. I beni si dicono rivali quando il consumo che ne fa un individuo comporta una sottrazione dello stesso bene a un altro individuo .
Bisogna fare chiarezza: l’acqua come risorsa è della collettività ma per renderla utilizzabile occorre sostenere dei costi che il mercato è in grado di minimizzare (efficienza nella gestione). Se l’efficienza così ottenuta contrasta con l’equità che la società vuol perseguire, non c’è che da correggere il risultato con l’intervento pubblico (lo stato sociale esiste proprio per questa funzione correttiva).
Nel caso dell’acqua, affermando che è un diritto, si fa credere che essa possa essere data a tutti, per tutti gli usi, nelle quantità richieste e ad un prezzo di accesso senza fondamento economico ovvero molto basso e tale da non assicurarne la conservazione. Ciò è fonte di gravi problemi la cui percezione non è purtroppo “immediata” ma diventano sempre più gravi e costosi col passare del tempo.
Che il sentiero è stretto lo si è capito anche durante il convegno successivo, Acqua bene comune...e poi? Risvolti economici, giuridici, economici, politici, industriali, in cui si sono confrontati Rosario Trefiletti, Rosario Lembo e Mauro D'Ascenzi.
I primi due, membri del Forum italiano dei movimenti per l'acqua, hanno svolto un ruolo molto importante nella campagna referendaria del 2011.
Secondo Bembo e Trefiletti, prima ancora che un problema economico, la gestione dell'acqua è un problema politico. Pertanto, c'è bisogno che partiti e istituzioni mettano mano a un nuovo piano strategico di gestione dei servizi idrici.
Per quanto riguarda i soldi con cui garantire gli investimenti sulle reti idriche, senza che per questo vi siano aumenti tariffari, essi vanno presi dalla lotta all'evasione, dalla revisione della spesa (ad esempio attraverso la rinuncia agli F35), dall'imposizione di una tassa patrimoniale. Dall'esito del referendum, insomma, non si scappa: bisogna pagare solo i costi e non remunerare il capitale.
“Il referendum è stato un momento importantissimo” ha affermato invece in chiusura di convegno D'Ascenzi “ma non ha risolto il problema. A due anni si deve ancora capire come sostenere il servizio idrico. Al momento c'è incertezza normativa ed economica. Bisogna capire un dato: che i soldi siano pubblici, che ci siano finanziamenti europei o nazionali o che ci sia il ricorso ai mutui bancari, gli interventi di manutenzione vanno realizzati”. Ci si lamenta degli acquedotti colabrodo, ma chi dovrebbe farli e con quali soldi? Lo Stato senza risorse? I Comuni bloccati dal patto di stabilità? Servono ogni anno due miliardi e mezzo di euro per i prossimi 30 anni. Per migliorare il servizio idrico, in Europa e nel mondo occidentale, si spendono 80 euro all’anno per ogni cittadino. In Italia ne spendiamo 26, con il risultato” - ha concluso - che siamo in ritardo sulla depurazione e la Corte Europea ci ha già multato come inquinatori dell’ambiente".