Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Gabriele Curci, fisico, ricercatore del Dipartimento di Scienze Fisiche e Chimiche e del Cetemps, Università dell’Aquila.
Leggo con un certo sconcerto e preoccupazione le notizie che ritornano periodicamente riguardo la richiesta di approvazione di nuovi “medi” insediamenti commerciali in varie aree della città.
La preoccupazione deriva dal fatto che tali e pur legittime proposte non rientrino in un quadro organico, cosa che peraltro si sta contemporaneamente cercando di finalizzare con la discussione sul nuovo Piano Regolatore generale, il Piano Urbano di Mobilità Sostenibile e altro ancora.
Così come l’innalzamento della temperatura media globale e del livello del mare è indice di un malessere non tanto del Pianeta quanto della nostra società, così i miei occhi filtrano queste notizie come un malessere non tanto della Città quanto dei suoi cittadini.
Faccio un passo indietro.
Nella mia carriera universitaria e lavorativa mi sono trovato a studiare la fisica dell’atmosfera. Non so bene come ci sia arrivato, non era una mia passione infantile, mentre lo erano in generale la scienza e la fisica.
Mi sono ritrovato, qui a L’Aquila, in uno dei più forti gruppi italiani in materia, il cui respiro internazionale mi ha fatto crescere molto non solo come scienziato. Da qualche tempo, mi trovo sempre più spesso a studiare e rispondere a domande inerenti il clima che sta cambiando e la crisi ad esso connessa, di cui molto si parla e si scrive. E’ una fortuna, perché il ragionamento che sta dietro la comprensione e la ricerca di soluzioni per affrontare la crisi climatica è la chiave di lettura per capire molti altri problemi interconnessi del nostro tempo.
Il Pianeta si sta scaldando, perché utilizziamo i combustibili fossili per produrre gran parte dell’energia che alimenta il nostro benessere. Grazie alla loro scoperta e alla concomitante rivoluzione industriale, oggi abbiamo un accesso diffuso e capillare a cibo, medicina, istruzione e intrattenimento impensabile uno o due secoli fa.
Il modello economico lineare “estrai-produci-utilizza-scarta”, che ha favorito questa prorompente ascesa, ci ha però portato ad ingolfarci dell’ultimo tassello, gli scarti, in forma di accumulo di CO2 in atmosfera, plastica nei mari e sostanze tossiche nell’ambiente.
Siamo in tanti e il piatto in cui mangiamo è anche la pattumiera in cui buttiamo.
Lo stesso modello ci ha convinto, pure a ragione fino a un certo punto, che per continuare a stare bene, anzi sempre meglio, dobbiamo continuare a “estrarre-produrre-utilizzare-scartare”. Ovvero che ogni bravo cittadino deve essere un bravo consumatore, per far girare l’economia, presunto motore del suddetto benessere.
Purtroppo continuare a estrarre risorse e scartarle senza criterio in modo sempre più rapido e abbondante è diventato controproducente, almeno per la larga maggioranza dei cittadini. Anche se è un discorso ambiguo, sfuggente, contraddittorio, antipatico, scomodo è importante cercare di affrontarlo e soprattutto cercare di uscirne.
Il bisogno indotto di un consumo continuo di oggetti personali, auto, vestiario, apparecchi elettronici, alimenti, viaggi, persino di risorse umane e intellettuali è visto come una via naturale per appagarsi ed affermarsi, sempre più in modalità mordi-e-fuggi e usa-e-getta, dove gli scarti alla lunga vanno a peggiorare la salute (fisica e mentale) e deturpano l’ambiente, rimangiandosi i benefici per cui erano stati proposti. E’ una logica che influenza nel profondo le nostre scelte individuali e collettive.
Tornado al titolo, da dove deriva il sempre nuovo bisogno di centri commerciali?
Dalla necessità di avere cose sempre nuove e facilmente raggiungibili, sia in termini economici che fisici. Le città divengono solo una rete di piste automobilistiche che collegano parcheggi. Non occorrono più cura e attenzione per i percorsi pedonali e i luoghi di aggregazione, per le belle piazze dove incontrarsi e giocare a pallone: l’importante è poter andare in una personalizzata gabbia dorata a quattro ruote da un non-luogo all’altro, per consumare ancora nell’aspirazione di una illusoria ed evanescente felicità. Sempre più incuranti e infastiditi dal prossimo, che ostacola il percorso.
A chi giova davvero tutto questo?
Non certo a qualche lavoratore pagato al minimo indispensabile per poter consumare, chiuso in un prefabbricato anche di domenica a vendere roba più che altro cinese, prodotta con energia e materiali troppo inquinanti.
Giova solo a chi è ricco e desidera esserlo ancora di più, inseguendo i più ricchi di lui. Lasciando indietro una landa di consumatori essi stessi usa-e-getta, Paesi ricchi rispetto ai poveri, città più prospere rispetto a quelle meno, quartieri più “in” rispetto a quelli più desolati, e così via. Differenze che vanno allargandosi sempre più, invece di diminuire, come hanno fatto in parte all’avvio del meccanismo. E insieme, una valanga di rifiuti e di dissesti ambientali che ricadono e ricadranno su tutti, clima compreso.
La via maestra per la soluzione della crisi climatica è il ritorno a cicli più naturali di produzione, in cui gli scarti essenzialmente non esistono e il più possibile viene rigenerato, come fa la Natura. Meno spreco, più qualità.
In tempi di scarsità questo l’Uomo l’ha sempre fatto, ora sembra averlo dimenticato.
Un’economia industriale circolare, sostenibile e necessariamente diffusa sul territorio, che non lasci nessuno indietro, anzi agisca per restituire valore a persone, luoghi, competenze, ricucendo laceranti disomogeneità sociali e redistribuendo in modo più equo la ricchezza. La Politica e i cittadini tutti devono essere forti in questo percorso, tornare a governare i processi economici, non il contrario.
Tutto parte dalla consapevolezza dei problemi e dal desiderio individuale di migliorare: iniziare a prediligere il bus rispetto all’automobile, domandarsi come e da dove arrivano i cibi sulle nostre tavole, sforzarsi di ridurre al minimo gli sprechi, frequentare e far frequentare ai bambini luoghi reali e belli a piedi e in bici (elettrica a L’Aquila), nella semplice quotidianità dell’andare a scuola e al lavoro, può far aprire gli occhi molto più di quello che si crede.
Ci si accorgerà ben presto di tanti aspetti che dalla macchina e dal cellulare non si vedono, si pretenderà di più da noi stessi e dagli Amministratori, diventando più propositivi. Ci si accorgerà che la soluzione alla crisi del nostro tempo non risiede nel dare ascolto solo ai facoltosi imprenditori, ma darlo soprattutto agli ultimi e ai più in difficoltà, ovunque essi siano e qualunque relazione abbiano con noi.
Abbiamo da guadagnarne molto tutti da subito, con buona pace di qualche Jeff Bezos che avrà un jet o un castello in meno (e imporrà meno al mondo le sue scelte).