Venerdì, 20 Novembre 2020 19:29

La mappa non è il territorio: per una microzonazione dei protocolli d'emergenza

di 

Di Antonello Ciccozzi*

RASSICURAZIONISMO ISTITUZIONALE

È stupefacente la visione sottesa alle rassicurazioni di Agostino Miozzo, dirigente della Protezione civile e coordinatore del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19.

In primo luogo viene decretato una sorta di assioma governamentale per cui le scuole “sono un ambiente protetto e controllato”, insomma sono sicure in modo aprioristico in quanto scuole. Sono ovunque ugualmente sicure, su tutto il territorio italiano, dal momento che non vengono affatto contemplate differenze in merito.

Visto che le scuole sono tout court sicure, chi vorrebbe chiuderle – seguita il dirigente – lo fa quindi perché le disprezza, anzi ci sarebbe proprio una “cultura di disprezzo” della scuola, che nientedimeno è “tradizionale”. In un vile complottismo oggi i misteriosi esponenti di questa sorta di setta sadica usano l’emergenza come pretesto per chiedere di chiudere le scuole e gettare i nostri figli nell’ignoranza. Quindi “La vera emergenza sono le scuole chiuse”, non il Covid-19.   

Lo stesso discorso lo fa la ministra della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina quando, in una narrazione melodrammatica e bambinesca con pretese epico-eroiche, ci informa che  il problema sarebbe «culturale» (quindi non epidemiologico!), poiché, nientedimeno, «la scuola è sempre stata trattata come la Cenerentola del Paese», addirittura «da tutti i punti di vista».

Così, anche stavolta, se si chiude non è perché c’è un’emergenza ma perché qualcuno (chi?) avrebbe ordito un efferato complotto contro la scuola. Questo in quanto secondo la ministra, dopo aver accennato a esperti fantomatici (scelti all’abbisogna, omettendo che altri esperti affermano decisamente il contrario) il contagio non passerebbe per le scuole. Perché? Per statuto? Quindi degli edifici, se si chiamando “scuola”, possono essere riempiti da persone che vengono da ogni dove per sei ore al giorno, con mascherine-fazzoletto che vanno allegramente via per lo spuntino quotidiano mentre in altri casi questo non sarebbe minimanente ammissibile. Non si capisce perché il Covid dorrebbe disertare per principio questi spazi d’assembramento preferendone altri. È una roba da matti.

Ragionare su un simile discorso oggi, da un luogo come L’Aquila, è una cosa che fa cadere le braccia. Sono passati undici anni da quando un dirigente della Protezione civile rassicurava la popolazione attraverso la diagnosi per cui la sequenza sismica in atto non avrebbe dovuto allarmare la popolazione ma, all’opposto, rasserenarla, in quanto si sarebbe trattato di uno “sciame sismico” che scaricava energia diluendo la potenza del sisma che poi invece è venuto.

Oggi, in modo sostanzialmente analogo, si usano diluizioni entro generalizzazioni statistiche su base regionale o nazionale della drammatica situazione emergenziale locale che sta vivendo L’Aquila per annebbiare attraverso numeri di comodo la realtà cittadina di un momento pericolosissimo.

In poco più di un mese abbiamo assistito a un’esplosione pandemica con indici di contagio a livello di quelli della Lombardia della prima ondata di epidemia Covid-19, abbiamo una situazione ospedaliera in cui si è passato il limite della sostenibilità sanitaria, con il pronto soccorso trasformato in un reparto e i letti dei malati che hanno riempito la chiesa del nosocomio.

I primari da giorni lanciano grida di aiuto, la governance rivela una difficoltà e un’inadeguatezza inquietanti nel gestire una situazione che è già fuori controllo.

Il tutto mentre, a differenza di quanto avveniva l’anno scorso nelle aree più colpite d’Italia, siamo solo a novembre; in attesa dell’inverno in cui si prevede il picco, e a sette mesi dall’arrivo del caldo estivo.

In una simile circostanza, i decisori nazionali decidono di ragionare a partire da generalizzazioni statistiche per produrre costrutti argomentativi che nascondono i picchi, come quello di quest’autunno a L’Aquila, attraverso diluizioni teoriche ampie che abbassano la percezione dei picchi emergenziali in una media statistica, tanto apparentemente confortante quanto sostanzialmente fuorviante e pericolosa.

Insomma, undici anni dopo lo sciame sismico che diluiva il terremoto, abbiamo a che fare con statistiche che diluiscono la pandemia per arrivare allo stesso risultato: una politica rassicurazionistica che, sottovalutando gl’indicatori locali di rischio, mette in atto soluzioni che aumentano l’esposizione al pericolo invece di attenuarle, produce il rischio derivato di amplificare la già elevata pericolosità della situazione.

LA TRAPPOLA DELLE GENERALIZZAZIONI STATISTICHE

Alfred Korzybski diceva che “la mappa non è il territorio”, vale a dire che la rappresentazione non è la realtà, che dobbiamo tenere presente che qualsiasi modello implica degli scarti rispetto a ciò che rappresenta e che questi scarti possono essere significativi. Se durante un terremoto si raccomanda di ripararsi sotto le travi portanti, non credo che durante una pandemia ci si possa riparare accovacciandoci sotto delle statistiche generalizzanti.  Le rappresentazioni non sono la realtà.

Intendiamoci: il problema non sono le statistiche in sé, il problema è l’uso sociale che delle statistiche si fa attraverso la mediazione politica.

Siamo di fronte a un’ingenua o maliziosa pretesa di sacralità del dato, di oggettivismo di stampo proto-positivistico, che oscura il fatto che statistiche sono costrutti teorici che ci danno modelli della realtà che risentono sempre in qualche misura di posizionalità, distorsioni, approssimatività.  

Il problema è che sotto le statistiche spesso covano posture deduttivistiche, dogmatiche. Quando le statistiche entrano nel gioco politico si dispondono per essere usate entro interpretazioni che sono spesso finalistiche, che servono meno a illustrare la realtà empiricamente rilevabile che a dimostrare ipotesi implicite già date in funzione di interessi vari.

Così si scelgono le statistiche che fanno comodo tra le tante disponibili, al fine di avvalorare assiomi già implicitamente dati per assodati, insomma, quest’aura di oggettività del dato statistico come fonte di verità assoluta si dispone al cherry picking di chi lo usa, alle dissonanze cognitive, alla percezione selettiva di chi ne usufruisce, scegliendo ciò che fa comodo nel solitamente ampio catalogo di misurazioni disponibili.

Le statistiche epidemilogiche vengono usate spesso per generalizzare, e questo induce il senso comune a percezioni approssimative e fuorvianti. La questione del pollo di Trilussa (se tizio mangia un pollo e Caio nessuno hanno mangiato mezzo pollo cadauno) si traduce nel fatto che rappresentazioni territoriali ampie generalizzano entro andamenti medi realtà locali che possono presentare dati del tutto discordanti. Si costruiscono immagini su medie nazionali o regionali, con una risoluzione a uno o a venti pixel; quando invece bisognerebbe aumentare la risoluzione, decostruire la pretesa di riduzione monocromatica a base regionale o addirittura nazionale per capire le sfumature dei luoghi e intervenire in base ad esse.

È soprattutto a causa di questo abuso politico-decisionale dei modelli statistici che luoghi come L’Aquila stanno vivendo l’emergenza Covid-19 in modo del tutto paradossale: nella prima ondata, a partire da una misurazione-decisione su scala nazionale ci siamo trovati in un lockdown severissimo, come se fossimo in provincia di Bergamo, fustigati dalla pandemia, con tutto totalmente chiuso per un lunghissimo periodo, ma avevamo praticamente zero casi di contagio.

Oggi, quando la città si trova in una situazione di reale emergenza data dalla tempesta perfetta della concomitanza tra indici elevati di diffusione del virus e la saturazione del sistema sanitario, a causa di una diluzione di questo stato di fatto in statistiche regionali meno allarmanti, ci troviamo in uno pseudo lockdown assurdo.

Oggi, è vietato fare una passeggiata montana in solitaria, ma 25 persone possono stare in una stanza in 30mq per sei ore con pausa merendina no-mask, moltiplicato per centinaia di classi, in mezzo a notizie di contagi continui, focolai in questa o quella scuola, e con l’ospedale al collasso. Tutto ciò è follia, follia che assume una maschera di razionalità a partire proprio da un uso sociale delle statistiche orientato per finalità politiche.

Tutto ciò mentre, in un finale tragicomico, il presidente della regione Abruzzo Marco Marsilio, ammette che le scuole devono restare aperte nonostante l’emergenza perché non ci sono i congedi parentali e il bonus baby sitter: la Regione non è in grado di fornire alle le famiglie gli strumenti per lasciare i più piccoli a casa, la scuola deve fare la bambinaia, nonostante i contagi che ivi avvengono, con buona pace degli assiomi di immunità al Covid-19 decretati della Protezione civile. Insomma, per tornare alla metafora disneyana della ministra Azzolina, la scuola-tata rivelata da questa dichiarazione, più che a Cenerentola, somiglia tristemente a Mary Poppins.

LA NECESSITA’ DI MICROZONARE I LOCKDOWN

Per uscire da questa trappola bisognerebbe comprendere che è necessario microzonare gl’interventi di contenimento del contagio. Insomma, le scuole non vanno chiuse ovunque su base nazionale o regionale, a partire da rozze approssimazioni binarie, a prescindere da differenze territoriali di distribuzione dei contagi, equiparando le zone urbane con facilità di connessione alla rete per la didattica a distanza e esplosioni locali epidemiche con zone rurali con contagi sporadici o nulli e difficoltà infrastutturali per la didattica a distanza dovute alla banda della rete internet.

Gl’interventi a tappeto dovrebbero cedere il posto a un approccio localizzato e veloce di gestione della pandemia. L’estate scorsa sarebbe stato opportuno implementare una capacità di switching, di passaggio, snello e veloce dalla didattica in presenza a quella a distanza, a vari livelli d’intervento: dalla singola classe, alla scuola, alla città, da periodi brevi o lunghi in funzione dell’andamento e della sostenibilità sanitaria dei contagi.

L’incidenza dei contagi, misurata sulle località specifiche e non attenuata su dati territoriali allargati, è il fattore in base per capire quando e dove chiudere le scuole. Si tratta d’intervenire in maniera non a tappeto ma puntiforme, solo laddove il diritto all’istruzione può entrare in conflitto con il diritto alla salute: nelle località specifiche in cui si assiste a un concomitare di indici di contagio alti e saturazione ospedaliera, il primo diritto deve essere rimodulato per garantire il secondo.

Seguendo questa linea, vogliamo capire che non ha senso imporre una grammatica unitaria del lockdown, una governamentalità emergenziale monodimensionale in cui si vieta la fruizione degli spazi pubblici ovunque nello stesso modo? Vogliamo capire che quello che succede in aree rurali abbastanza isolate con indici di contagio pressoché nulli è diverso da quello che succede in zone urbane flagellate dal contagio? Che senso ha imporre agli abitanti di paesi appenninici senza contagi di non poter fare una salutare camminata? Dovrebbero essere le amministrazioni comunali a modulare un protocollo decisionale generale in funzione dell’incidenza locale dei contagi: se ci sono focolai non si esce, altrimenti si vive normalmente.

Con questo totalitarismo emergenziale si esaspera solo la popolazione, sono interventi che rimandano solo a un’inquietante dimensione subcosciente del potere che si manifesta come pulsione di punizione, che suggeriscono solo una valenza simbolica coercitiva, senza nessuna risultante pratica, se non quella di produrre una dannosa e spesso anche giusta reazione di ribellione.

Comprendere questi problemi portati da un uso socio-politico delle statistiche che coniuga naldestramente le generalizzazioni dei modelli statistici interventi di chiusura generalizzati vuol dire comprendere la necessità di approdare a un approccio fondato sulla microzonazione degli interventi di contenimento della diffusione del virus. Tenendo conto del periodo lungo che ci separa dall’estate penso che questo sia fondamentale.

La questione della necessità di trovare compromessi tra economia e salute riguarda il fatto che non si può né chiudere tutto per tempi lunghi ovunque e né ovunque e per tempi lunghi tenere tutto aperto come se nulla fosse.

Non si deve ragionare per territori ampi e per tempi lunghi ma in modo localizzato e entro tempi brevi. L’unico modo per non sprofondare nell’allarmismo che fomenta dittature emergenziali e nel rassicurazionismo che diminuendo la percezione del rischio finisce con il favorire il contagio è costruire una risposta istituzionale che consenta ai territori di fare, per così dire, “surf” sulle onde della pandemia.

Questo può avvenire, grazie agli strumenti informatici che oggi abbiamo a disposizione, implementando una reazione veloce di chiusura o apertura in funzione delle informazioni che provengono da diagnosi localizzare dell’incidenza dei contagi.

L’IMPORTANZA DI DIAGNOSI ETNOGRAFICHE, QUALITATIVE DELL’EMERGENZA

Bisognerebbe poi riflettere sul fatto che è qui presente un certo monopolio diagnostico delle scienze quantitative generalizzanti a cui corrisponde una disattenzione pressoché totale verso gli approcci qualitativi particolaristici di misurazione delle situazioni emergenziali. È, per fare un esempio attraverso una metafora con il mondo dello sguardo fotografico, come una sorta di ossessione per le ottiche grandangolari e di complementare svalutazione del teleobiettivo.

Andrebbe invece compresa l’importanza della dimensione qualitativa della rilevazione del rischio, a partire da approcci etnografici, capaci di individuare soggetti, informatori, testimoni in posizioni chiave che ci diano una rappresentazione cogente delle situazioni che empiricamente vivono.Le diagnosi situazionali che, ad esempio, forniscono primari ospedalieri in prima linea che parlano di reparti saturi, infermieri che raccontano di drammi lavorativi, insegnanti che testimoniano situazioni di assedio da contagi intorno a una sezione o a una scuola, non andrebbero viste come opinabili opinioni dell’uomo di strada ma come dati scientificamente rilevanti per definire il contesto emergenziale e mettere in atto strategie a partire da essi.

Tutto questo a patto di scegliere testimoni affidabili, nella non facile precauzione deontologica di evitare soggetti che sono interpreti di interessi politico-amministravi, come dirigenti interessati a produrre narrazioni distorte a beneficio di clientelismi vari, se non peggio. Si tratta di considerare alcuni vissuti emergenziali individuali altamente rappresentativi non come mere opinioni personali, al più spendibili in termini di narrativa cronachistica, ma come dati qualitativi scientificamente rilevanti.

ATTENZIONE AL DOGMATISMO SCIENTISTA

Quello che vale per la statistica, la sua degenerazione come produttrice di dogmatismi, vale in generale per la scienza: nella nostra società la scienza ha assunto il posto che fino a qualche decennio fa era della religione, per fortuna, ma questo porta al rischio, nel suo uso sociale, di adoperare il termine “scienza” o l’aggettivo “scientifico” per costruire un’aura di autorità indiscutibile e di verità assoluta. Oggi la politica mette in piedi commissioni “scientifiche” che decidono le sorti collettive delle popolazioni in questa fase di emergenza, commissioni che poi, leggendo i curriculum dei componenti, si rivelano meno scientifiche di quanto promesso, o per nulla.

Attraverso la diffusione mediatica, le rappresentazioni scientifiche delle emergenze producono senso comune, cultura antropologica fatta di visioni, valori, schemi di comportamento che tendono a orientare l’agire collettivo e individuale della popolazione, retroagendo sulla diffusione delle emergenze. In questi contesti più che mai la politica spesso usa la parola ‘scienza’ per sancire l’inappellabilità delle istanze decisionali; e questo può essere un problema, un problema molto serio perché la politica può usare la scienza in modo inappropriato o finanche strumentale, arrivando al risultato perverso per cui può succedere che le emergenze vengono amplificate invece che risolte, o può succedere che si innescano emergenze di altro grado.

Saper evitare le contrapposte tentazioni sia dell’allarmismo che del rassicurazionismo significa tenere a mente che esiste tanto la minaccia pandemica del virus Covid-19 quanto la minaccia governamentale data dalla tentazione biopolitica di usarlo come pretesto disciplinare per instaurare regimi emergenziali che tenderanno autopoieticamente a perpetuarsi anche dopo l’emergenza. In tal senso in queste circostanze più che mai è vitale saper distinguere la scienza dal dogmatismo scientista messo in gioco in funzione politica per sacralizzare i processi decisionali.

*Antonello Ciccozzi è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Ha svolto ricerche etnografiche nell’appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito emergenziale post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni.

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