Mercoledì, 28 Dicembre 2016 00:15

L'Aquila, coi terremoti del 2016 la desiderabilità della città è crollata: ecco perché

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I terremoti che, il 24 agosto, il 26 e il 30 ottobre scorsi, hanno scosso l'Appennino centrale, si sono ripercossi anche all'Aquila producendo, soprattutto a medio termine, un danno socio-culturale importante: «Un ulteriore e grave crollo della desiderabilità della città».

Ad affermarlo è Antonello Ciccozzi, antropologo dell'Università degli Studi dell'Aquila e attento osservatore delle dinamiche socio-culturali che hanno attraversato L'Aquila, soprattutto a partire dal terremoto del 6 aprile 2009, quello ha cambiato profondamente il corso della sua storia recente.

Con old.news-town.it Ciccozzi ha già dialogato due settimane fa [leggi l'articolo], quando abbiamo sviscerato le sfaccettature sociali della percezione del rischio. Ma perché la desiderabilità dell'Aquila, agli occhi dei non-aquilani, è mutata dopo le scosse di agosto e ottobre? La consapevolezza della sismicità della città è stata davvero razionalizzata negli ultimi sette anni e mezzo, oppure la comunità ha attivato dispositivi culturali che hanno preso la strada della rimozione del rischio?

"Il terremoto refa' fra trecento anni". «Negli ultimi anni, talvolta, abbiamo rimosso il rischio più culturalmente che strutturalmente». In tal senso sono stati messi in campo alcuni cerimoniali sociali, come li definisce Ciccozzi: «Uno è il diffuso proverbio post-sismico "tanto mo' ha fatto, refa' fra trecento anni!" (Ormai il terremoto ha fatto, e rifarà tra trecento anni, ndr), in relazione alla credenza quasi totalmente pseudo-scientifica secondo la quale nell'aquilano i terremoti distruttivi si susseguono ogni tre secoli circa», sottolinea l'antropologo aquilano. E si tratta di una vulgata diffusa e inconsciamente incorporata in città, molto di più di quel che si crede. Una credenza che porta a sottovalutare il rischio, a livello individuale, collettivo e istituzionale.

L'idea ha indubbiamente – forse in modo inconsapevole – influenzato anche le politiche pubbliche con le quali si è approcciato in questi anni alla sicurezza sismica, partendo dal "peccato originale", ossia la scelta del miglioramento sismico, a scapito dell'adeguamento. Come è noto agli addetti ai lavori – se ne parlò molto nell'immediato post-sisma aquilano – la differenza tra adeguamento e miglioramento sismico è sostanziale. L'adeguamento, secondo le normative vigenti, prevede interventi sull'edificio per il raggiungimento di un indicatore di sicurezza sismico convenzionale pari a 1 (il grado massimo). Il miglioramento, invece, prevede lavori per un coefficiente di sicurezza più basso rispetto all'adeguamento, stabilito in base al tipo di edificio (pubblico o privato) e all'attività in esso effettuata (scuole, ospedali, etc.).

ciccozziCom'era, dov'era? Questi temi sono per Ciccozzi legati ad aspetti culturali, prima ancora che tecnici: «Nei casi in cui subordiniamo il valore della sicurezza sismica degli edifici, a quello della loro tutela storico-artistico-architettonica». In merito il ricercatore chiarisce che «se il come ricostruire è uno questione tecnica di tipo ingegneristico-architettonico, il perché restaurare in luogo di demolire rimanda a un campo di premesse culturali; un campo che è quello dell'antropologia dell'abitare, nonché della concezione della storia».

Qui entra in gioco, nel caso dell'Aquila, la questione del "com'era dov'era". Questa impostazione, secondo l'antropologo aquilano, porta, se estesa a dogma, «al rischio di un assolutismo della conservazione». Una prospettiva a ben vedere infondata in quanto «basata su un'idea dell'Aquila in cui il centro storico è ridotto a un unum medievale; e su una concezione della storia dove la stessa è semplicisticamente confusa con il passato. Anzi, con un momento del passato elevato a emblema identitario, e non intesa per quello che è, ossia come un processo in divenire».

In merito lo studioso nota che «se uscissimo dalla tentazione identitarista di confondere la storia della città con una istantanea di nostro gusto del suo passato remoto, ci accorgeremmo che l'urbanistica aquilana è solo marginalmente medievale; la città storica è, viceversa, un'antologia di stili architettonici, dati molte volte proprio dalle successive ricostruzioni non basate affatto sul com'era dov'era». In tal senso Ciccozzi osserva che «il costrutto mitologico-politico del com'era dov'era può arrivare a inibire la possibilità di re-immaginare e riscrivere il nuovo anche dentro il centro storico, sostituendo con architetture contemporanee di valore gli elementi di tessuto urbano di scarso valore e gravemente danneggiati». Invece, a volte «si arriva, in nome di un folklore identitarista travestito con il blasone di "storia", a subordinare la sicurezza alla conservazione, compromettendo la futura desiderabilità della città».

auditoriumRispetto a certe più o meno recenti polemiche, il ricercatore osserva che «è avvilente vedere una cittadinanza che, mentre insorge rumorosamente e in massa se qualche ragazzino fa una scritta sui muri, o se durante il partecipato aperitivo di Natale qualcuno, travolto da un eccesso orgiastico di libagioni, commette una liberatoria pisciata tra i vicoli diroccati, resta in silenzio menefreghista quando le istituzioni, in nome della tutela, sostengono di voler restaurare una scuola andando in deroga rispetto al 100% di sicurezza sismica e spendendo una cifra fino a quattro volte maggiore di quanto costerebbe demolire l'edificio e ricostruirlo ex novo, mettendo la sicurezza in primo piano». In merito Ciccozzi precisa che non sta «difendendo chi commette minuti atti d'inciviltà» ma si rammarica della «incapacità della cittadinanza di comprendere scale di rilevanza e livelli di priorità rispetto alle problematiche reali; e di mobilitarsi in funzione di ciò», scegliendo invece di «appagarsi e perdersi nella tentazione miope, fuorviante e misera della ricerca del piccolo capro espiatorio».

Qui la questione riguarda in concreto il restauro della scuola De Amicis, che è uno degli argomenti centrali di un'analisi pubblicata recentemente da Ciccozzi (Com'era dov'era. Tutela del patrimonio culturale, sicurezza sismica degli edifici, Etnografia e ricerca qualitativa, Bologna, Il Mulino, 2015).

Le 5 caratteristiche variabili. Che fare, dunque? Secondo Ciccozzi «questo è un discorso più tecnico, ma dovremmo, come dire, imparare ad essere tutti un po' "spontaneamene galileiani"». Ossia si dovrebbero collocare le scelte sulla ricostruzione su un piano di analisi del rischio che, in questo caso tenga conto in modo combinatorio di una serie di caratteristiche (variabili) degli edifici. Ciò al fine di pervenire a una sorta di «microzonazione della restaurabilità» che ci indichi, nel modo più specifico e parcellizzato possibile, se è il caso di restaurare o no.

Ciò significa in fondo «approdare a una cultura diffusa della consapevolezza razionale del rischio». Per questo si dovrebbe «combinare il valore storico, architettonico e artistico dell'edificio da ricostruire, con il livello di danno subito, con il costo di intervento per il restauro, e soprattutto con la destinazione d'uso e il livello di sicurezza promesso dal restauro. Il tutto per comprendere e decidere, di volta in volta, se è il caso di restaurare o di demolire e ricostruire».

duomo prima sismaQuesto esercizio dovrebbero farlo «tanto i tecnici, in modo rigoroso, quanto i cittadini, in modo spontaneo». Basta un minimo sforzo d'immaginazione per capire come queste variabili si manifestano diversamente nel caso di una chiesa, di un edificio privato, o di una scuola. Se non si studiano e valutano queste cinque variabili c'è il rischio di perpetuare atteggiamenti che "confondano la storia con il passato". Tutto, tra l'altro, a grande vantaggio economico di parte, nei confronti di chi è imprenditorialmente impegnato nel restaurare, al posto di demolire.

«Nel caso di una città sismica come L'Aquila, operare una ricostruzione materiale realmente orientata alla massimizzazione della sicurezza significa, in ultima analisi, ripristinare la desiderabilità del luogo, fattore che dovrebbe essere inteso come conditio sine qua non per la tanto declamata "ricostruzione sociale e culturale"». Questo significa consentire alla gente di scegliere in serenità un futuro all’Aquila.

L'Aquila = terremoto? Dopo i terremoti di agosto e ottobre, il turismo, leggermente in ripresa, è nuovamente crollato, come addirittura molti studenti universitari fuori sede per (legittima) paura hanno manifestato più o meno concretamente la volontà di andare via. Questo soprattutto perché, per Ciccozzi, dopo agosto sono mutate la percezione e la collocazione della città dell'Aquila nello scenario nazionale: «Prima del 24 agosto L'Aquila era "la città dove c'è stato il terremoto", dopo è diventata "la città dove c’è il terremoto". Nell'immaginario nazionale la rappresentazione sociale della città è cambiata. Ora per la maggior parte degli italiani vale l'equazione "L'Aquila=terremoto", le scosse del 2016 hanno riportato molti alla convinzione che siamo una specie di 'Aleppo sismica'».

Questa percezione dell'Aquila come città pericolosa «è stata probabilmente acuita da una comunicazione istituzionale del rischio che è passata dagli eccessi rassicurazionistici del 2009, del presunto sciame sismico che avrebbe scaricato energia, agli eccessi allarmistici di dispacci che arrivano a una sorta di terrorismo deterministico per cui "certamente ci sarà un terremoto di magnitudo 7"; ma purtroppo sappiamo che, nel nostro caso, l'allarmismo è meno infondato del rassicurazionismo».

L'Aquila non è desiderabile. L'antropologo osserva che «le città vive sono città attrattive, luoghi dove si desidera andare a vivere, non luoghi da dove si desidera fuggire; e i recenti terremoti hanno progressivamente privato L'Aquila di desiderabilità, rendendola un luogo da dove si vuole fuggire; prima per il disagio oggi per il pericolo; prima per la lunga stagione della ricostruzione, che si è rivelata più simile a un inverno che a una primavera, e oggi – peggio – per la paura del terremoto che, non è che "ormai ha fatto", ma ritorna».

In merito Ciccozzi conclude che «se vuole essere tale, L'Aquila desiderabile, L'Aquila bella, deve coniugare la sua storia urbana con un livello di sicurezza adeguato alla sua storia sismica; è un compito difficile, e non significa certo demolire tutto in preda al panico, ma nemmeno, all'opposto, illudersi che certi livelli di sicurezza possano bastare sempre».

Stiamo ricostruendo bene? Saremo in grado di capire che, senza un 100% reale e diffuso di sicurezza sismica, la città non sarà mai più attrattiva, desiderabile, almeno come lo è stata (e come la ricordiamo con nostagia) fino alle 3:31 del 6 aprile 2009?  

Ultima modifica il Giovedì, 29 Dicembre 2016 19:41

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