Al tempo dei social network e della condivisione compulsiva di ogni tipo di informazione, assume un'importanza dai risvolti sociali rilevanti la ricerca (spesso ossessiva) del dato, anche quando non comprensibile ai più, anche quando non verificato. Ne sono esempi lampanti quelle sorta di social-psicosi collettive ad ogni scossa di terremoto nell'aquilano, quando migliaia di cittadini tirano ad indovinare su Facebook la magnitudo del terremoto prima che gli enti preposti comunichino i dati.
Più seria, invece, è la paura nei territori ad alto rischio sismico non epicentro dei terremoti del 2009, e di quelli di agosto e ottobre scorsi. Per intenderci, è di questi giorni lo sciame sismico che investe il territorio dell'Alta valle dell'Aterno aquilano, come anche ricostruzioni più o meno scientifiche (e più o meno storiche) vorrebbero la Valle Peligna come prossima futura zona di sfortunati cataclismi.
Ma qual è il rischio reale delle popolazioni che "vivono uno sciame sismico"? Nessuno lo sa con certezza, purtroppo. Ma è cosa certa che la percezione del rischio sia costruita culturalmente. Per questo abbiamo voluto interpellare l'antropologo aquilano Antonello Ciccozzi, noto anche per essere stato un consulente decisivo dell'accusa nel processo alla Commissione Grandi Rischi, dove il capo d'imputazione – l'accusa di aver dato alla popolazione una diagnosi di non pericolosità che, diminuendo la percezione del rischio, ha concausato la mortalità dell'evento – ha comunque retto ai tre gradi di giudizio, seppur ristretto a uno solo degli imputati, nonostante com'è noto l'assoluzione della maggior parte degli accusati in Cassazione.
Ciccozzi ha proseguito lo studio dei fattori culturali che condizionano la percezione del rischio. In merito, l'anno scorso ha pubblicato Il senso del caso nella «savana della complessità»: la percezione del rischio sismico in una prospettiva antropologica, nel volume, edito da Rubettino, Prevedibile / imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro: una raccolta interdisciplinare di analisi con contributi autorevoli, come quelli della sismologa storica Emanuela Guidoboni, del geofisico Francesco Mulargia, del sismologo Gianluca Valensise e del disastrologo David Alexander.
"Gli oggetti del rischio vengono definiti a partire da categorie culturali – afferma l'antropologo – è importante ribadire che rischio e pericolo non sono affatto sinonimi: il rischio è legato alla percezione della pericolosità, percezione che non è innata ma culturalmente condizionata. Per fare un parallelo, possiamo dire una curva è pericolosa se ha determinate caratteristiche, ed è rischioso percorrerla velocemente". Tutto questo porta ad un corollario: "I rischi non percepiti sono più pericolosi di quelli percepiti, ossia a una diminuita percezione del rischio si associa un aumento della pericolosità, ad esempio, una curva a gomito non segnalata è più pericolosa di una uguale ma segnalata". Affermazioni importanti, in tema di catastrofi naturali.
Incoscienza o paranoia? In questo ambito, gli atteggiamenti culturali per Ciccozzi tendono alla semplificazione binaria, ad oscillare tra eccesso di rimozione ed eccesso di percezione, tra rassicurazionismo, ossia la tendenza psicologica alla rimozione del rischio, come paradossale strategia di difesa – chi conosce il processo Grandi Rischi sa di cosa parliamo – e allarmismo, la tendenza ad assolutizzare il rischio stesso. Come si fa dunque a mediare il proprio atteggiamento su una bilancia che si muove tra incoscienza e paranoia? Il concetto di allerta, nella sua gamma di gradualità, medierebbe le posizioni estreme della percezione dell'allarme perenne, e della sicurezza perenne.
Le polemiche e le udienze in tribunale sulla Commissione Grandi Rischi hanno aiutato alla percezione dell'allerta nel caso dei recenti terremoti sull'Appennino centrale? "Sicuramente nel caso delle ultime scosse nessuno si è sognato di dire che 'sta scaricando energia' - dice Ciccozzi - l'Italia e la comunità scientifica internazionale non hanno mai compreso il processo dell'Aquila, perché ne è stato mistificato il senso per rifugiarsi nel facile cliché di Galileo, del processo alla scienza, del processo per non aver previsto il terremoto: il problema non è che le autorità preposte alla comunicazione del rischio non abbiano allarmato la popolazione. Il problema è che hanno rassicurato prevedendo e comunicando un non-terremoto".
Il problema, dunque, è spesso la comunicazione del rischio. Ad esempio, come abbiamo già scritto, la comunicazione della distanza di un luogo dall'epicentro è fondamentale per la percezione reale, e questo non è sempre successo, soprattutto nella retorica sulla "resistenza degli edifici di Norcia" messa in campo dai molti media dopo il terremoto dello scorso 24 agosto.
Una retorica che si è, purtroppo, letteralmente sgretolata a fine ottobre, quando si è tragicamente capito che Norcia non aveva subito danni ad agosto non perché più resistente degli altri comuni dell'area, ma semplicemente perché l'epicentro del terremoto di agosto era a 50 km da Norcia stessa. Un po' come la distanza tra Avezzano e L'Aquila la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, insomma.
In merito Ciccozzi concorda che "si è ormai diffusa la credenza secondo la quale la magnitudo sia un parametro oggettivo per classificare l'impatto di un terremoto, così non si comprende che ciò che condiziona la disastrosità di questi eventi è prevalentemente l'accelerazione al suolo, che è funzione non solo della magnitudo ma anche e soprattutto della distanza dall'epicentro. Così ci è toccato sentire che il terremoto del Cile nel 2010 sarebbe stato 30mila volte più forte di quello dell'Aquila. Ma questo che significa? Che impatto hanno subito le case più vicine all'epicentro in termini di accelerazione al suolo? Se andassimo a vedere non credo che sarebbe molto maggiore di quello che vi fu all'Aquila il 6 aprile 2009".
Che fare? Che consigli dare alle numerose famiglie che in queste settimane vivono un nuovo sciame sismico? "Premettendo che la definizione sciame è scorretta per definire un evento in corso, e che si dovrebbe usare il termine sequenza, ma ormai tale abitudine di è affermata in italia dopo quella disgraziata riunione, bisognerebbe prima di tutto evitare di acclimatarci dentro l'angoscia assoluta o la rimozione assoluta del rischio – sostiene l'antropologo aquilano – prendere consapevolezza che c'è un rischio alto e sempre, e intraprendere condotte improntate alla su citata allerta".
Ciccozzi richiama la formula della disastrosità che "è data da tre principali fattori: agente d'impatto fisico (prodotto dal terremoto), vulnerabilità (la capacità degli edifici di reggere quell'impatto), esposizione a tale vulnerabilità, vale a dire in questo caso il fatto di trovarsi o meno dentro edifici che possono crollare".
"Approdare a una cultura dell'allerta significa acquisire una consapevolezza del rischio, e adottare delle condotte informate ad essa". Ciò significa nel breve termine ridurre il fattore esposizione – stare attenti a dove si va, rispettare le accortezze che la prevenzione suggerisce (borse, torce, etc., ndr) – e nel medio e lungo termine occuparsi del fattore vulnerabilità, ossia mettere in campo azioni di sicurezza sismica sulla propria abitazione, rafforzarla".
Tutte queste azioni, tuttavia, implicano una forte consapevolezza culturale del rischio: in pratica, uscire individualmente e collettivamente dalla pericolosa cultura del fatalismo.