di Valerio Congeduti* - Le analisi fin qui prodotte sulle motivazioni della sentenza di appello del Processo Grandi Rischi si sono soffermate per lo più su due aspetti: quale fosse lo statuto di quella riunione (ovvero se si trattasse davvero della Commissione Grandi Rischi o di una semplice ricognizione di esperti del settore) e a chi spettasse il dovere di informare la cittadinanza (ovvero se i presenti avessero mansioni informative o esclusivamente valutative, essendo le prime appannaggio del Dipartimento di Protezione Civile). Scarsa attenzione è stata fin qui rivolta a come la Corte abbia di fatto finito per riabilitare totalmente l'operato degli esperti durante quella riunione. Ed è forse questo l'aspetto più discutibile per quanti, anche a fronte dell'assoluzione di sei degli imputati, certo non si aspettavano che l'appello spazzasse via una verità storica che sembrava ormai acquisita: che quella riunione fu principalmente un'operazione di facciata in cui la scienza non trovò modo di esprimersi come invece sarebbe stata chiamata a fare.
Discutibile appare anche la strategia argomentativa congegnata al riguardo dal collegio giudicante. La Corte infatti arriva a sostenere che l'operato degli esperti non debba essere valutato per le modalità e il metodo adottati o per il livello di approfondimento dei contributi offerti, ma solo ed esclusivamente per il merito delle conclusioni raggiunte. In sostanza sarebbe del tutto irrilevante se la discussione sia stata superficiale o sbrigativa, perché l'unico aspetto di cui tener conto sarebbe la "correttezza scientifica delle valutazioni espresse". E siccome niente di quanto affermato in quella sede può dirsi sostanzialmente scorretto dal punto di vista scientifico, i presenti avrebbero adempiuto in toto al proprio dovere.
Ma è proprio tale pretesa distinzione tra metodo e merito ad apparire qui artificiosa e poco credibile, tanto più in un settore, come quello della scienza del rischio, in cui per arrivare a una valutazione corretta non è sufficiente evitare conclusioni palesemente fallaci, ma è necessario pesare nel modo più accurato possibile ciascuno dei fattori in gioco. In altre parole, per poter affermare di aver condotto una buona analisi del rischio, non basta rivendicare la propria estraneità nei confronti delle sconsiderate dichiarazioni di Bertolaso e De Bernardinis sulla ormai famigerata teoria dello scarico di energia, ma bisogna anche poter dimostrare di non aver trascurato nessuno degli aspetti rilevanti. Ed è arduo sostenere che gli imputati si trovino in questa posizione.
Sappiamo infatti che il valore del rischio è dato dal prodotto di tre fattori: pericolosità, vulnerabilità ed esposizione (R = P x V x E). Una valutazione attenta non avrebbe trascurato nessuno di questi fattori, pena la falsificazione del risultato finale. La riunione del 31 marzo invece mise a tema soltanto il primo, ovvero la probabilità che si verificasse un terremoto più forte, e anche questo lo fece in modo generico e approssimativo. Perché ad esempio nella bozza di verbale non si registra nessuna risposta dei sismologi quando Barberi li sollecitò a una presa di posizione nei confronti della teoria dello scarico sostenuta da Bertolaso? Come spiegare tale timidezza da parte degli scienziati se non con la paura di esporsi troppo dovendo sconfessare il capo della Protezione Civile, nonché "mandante" di quell'operazione?
Gli altri due fattori – l'esposizione, ovvero il valore d'insieme di vite umane e di beni materiali esposti, e la vulnerabilità, ovvero la loro capacità di sopportare il danno – non furono neanche presi in considerazione. In altre parole, si badò solo a rispondere alla domanda "è possibile prevedere un terremoto più forte?". Mentre a nessuno venne in mente di chiedersi "che cosa succederebbe a cose e persone qualora, a prescindere dalla nostra capacità di prevederlo, si verificasse un terremoto più forte?". Questa seconda domanda andava considerata ineludibile tanto quanto la prima per arrivare a determinare il valore di R (il che doveva essere precipuamente l’obiettivo di quella riunione). Non può infatti ottenersi un risultato che non sia falso a partire da un calcolo che tagli fuori parametri e fattori determinanti per la sua individuazione.
Eppure leggiamo nelle motivazioni che "era del tutto irrilevante in quella sede un approfondimento teorico dei temi della vulnerabilità e dell’esposizione". Come può la Corte avventurarsi a sostenere una tesi del genere? Può farlo soltanto in virtù di un espediente argomentativo ad hoc. Nel passaggio in cui tocca questo punto, la Corte sposta infatti la missione di quella riunione dall'analisi del rischio tout court all'accertamento di un eventuale aggravamento del rischio rispetto alla norma. In altri termini, gli esperti, secondo il collegio giudicante, non avrebbero avuto il compito di pronunciarsi sullo stato di rischio presente in quella situazione, ma piuttosto su un eventuale aumento del rischio come conseguenza dello sciame sismico. E poiché si presume che i valori di vulnerabilità ed esposizione fossero rimasti gli stessi di prima, l'unico fattore da analizzare per valutare se il rischio era aumentato rimaneva la pericolosità (Rt - R0 = [Pt - P0] x V x E). Una volta stabilito che anche la pericolosità non era mutata, non c'era altro da aggiungere.
Ma una simile ridefinizione degli obiettivi di quella riunione non trova nessun riscontro nella lettera di convocazione pervenuta agli esperti il 30 marzo 2009, nella quale si parla di "una attenta disamina degli aspetti scientifici e di protezione civile relativi alla sequenza sismica degli ultimi quattro mesi". Degli aspetti, appunto, al plurale, non di un unico aspetto. I sofismi adottati dalla Corte – sia la distinzione tra "metodo" e "merito" delle valutazioni, sia quella tra "rischio" e "aggravamento del rischio" – hanno tutta l'aria di artifici escogitati a posteriori, per poter passare sotto silenzio le lampanti carenze manifestate nell'analisi del rischio da parte degli esperti convenuti all’Aquila, riabilitando così del tutto il loro operato rispetto alla sentenza di primo grado. Una riabilitazione che va molto al di là della semplice assoluzione (di per sé stessa non censurabile) di sei degli imputati, e che non aiuta certo un processo di responsabilizzazione e presa di consapevolezza da parte di chi in futuro sarà chiamato a offrire il proprio parere esperto in analoghi scenari di rischio.
*Valerio Congeduti, aquilano, ha conseguito il Master in Comunicazione della Scienza presso la SISSA di Trieste con una tesi sulla comunicazione del rischio sismico. E' autore di un capitolo sul Processo Grandi Rischi pubblicato nel libro "Parola di scienziato: la conoscenza ridotta a opinione" (Universitalia). Ha pubblicato articoli di scienza su l’Unità, Scienza in Rete, Almanacco della Scienza CNR, OggiScienza. E' cultore della materia e titolare del Laboratorio di scrittura scientifica presso l'Università di Roma Tor Vergata.