In questi giorni, si è tornato a discutere della mostra dell'artista e fotografo aquilano Roberto Grillo allestita dall'associazione culturale 'Segno' lungo il corso della città in occasione delle celebrazioni per il decennale del terremoto. A scatenare le polemiche, la presa di posizione del consigliere comunale Roberto Jr Silveri che, sull'onda di alcuni commenti social che chiedevano la rimozione dell'installazione, ha pubblicato il testo di un provvedimento che, immaginiamo, porterà all'attenzione dell'assise civica chiedendo che l'opera venga sostituita "con una nuova esposizione che dia luce e risalto ai simboli della ricostruzione".
L'Aquila - ha aggiunto Silveri - "necessita di far conoscere anche ciò che è stata capace di ricostruire e riconquistare in 10 anni". A sostegno del consigliere comunale, le parole della neo assessora Maria Luisa Ianni che ha aggiunto: "adesso basta, è estate, c'è voglia di vita".
Un paio di premesse, d'obbligo: un'opera d'arte coglie il suo obiettivo se è capace di far discutere, stimolare riflessioni e discussioni, animare l'opinione pubblica; in questo senso, l'obiettivo è raggiunto. D'altra parte, e in quanto tale, un'opera d'arte è per sua natura divisiva, può piacere o non pacere. Ed è assolutamente legittimo, dunque, che alcuni cittadini possano sentirsi infastiditi, in particolare, dalla lunga esposizione delle fotografie che, da comunicazioni dell'associazione, dovrebbe restare affisse lungo il corso fino alla fine dell'anno. In realtà, una mostra di Roberto Grillo è rimasta esposta lungo il corso, giusto qualche metro più in là, per diversi anni - la ricorderete - ed in quel caso, una fotografia tra le altre rappresentava davvero un pugno nello stomaco, ritraendo, dall'alto, la camera da letto della famiglia Vittorini.
Qui sta il punto.
A far riflettere sono le motivazioni che spingono tanti aquilani a chiedere la rimozione della mostra fotografica: è estate, abbiamo bisogno di immagini positive, di far vedere i monumenti restaurati, di mostrare i volti dei giovani della città. Di nuovo, si tratta di un sentimento legittimo. Non vorremmo, però, nascondesse la voglia di rimuovere ciò che è accaduto a L'Aquila, di lasciarlo alle spalle senza che vi sia una reale rielaborazione del lutto collettivo che ha sconvolto la città. Inutile nasconderlo: c'è chi da anni, sotto voce, vive con malcelato turbamento la fiaccolata del 6 aprile, d'altra parte in città non siamo stati ancora in grado, a dieci anni dal terremoto, di dedicare un luogo alla memoria delle vittime e, più in generale, non è un mistero che i familiari si siano sentiti spesso abbandonati.
Ecco, le parole che abbiamo letto in questi giorni - "mostra di morti viventi", si è arrivati a scrivere - ci pare stiano in questo solco. I volti esposti, altro che morti, sono di personalità che, nel bene e nel male, hanno scritto un pezzettino di storia di questi dieci anni e l'intenzione artistica, raccontata con pudore da Roberto Grillo nel corso della conferenza stampa di presentazione dell'installazione, è stata di "chiudergli gli occhi" come "tributo alle vittime del terremoto".
Ognuno di loro, con gli occhi chiusi, ha tracciato sulle rughe del proprio volta una parola, una riflessione, un segno che racconta il ricordo, l’emozione, il sentimento, la speranza.
Scelte divise, lo ribadiamo: c’è il volto di Guido Bertolaso accanto a quello di Fabio Picuti, il pm dell’inchiesta sulla Commissione Grandi Rischi che porta sulla bocca la parola 'verità'; c’è il volto di Alice, nata il 10 aprile 2009, accanto a quello di Dina Sette, moglie di Giustino Parisse, mamma di Domenico e Maria Paola, tra le vittime della furia del terremoto; ci sono i volti di Massimo Cialente e Pierlugi Biondi, di Stefania Pezzopane e Camilla Inverardi, di Marta Valente, rimasta 23 ore sotto le macerie, e di Sergio Basti, il Vigile del Fuoco che la notte del terremoto coordinò i soccorsi.
Palrare di volti funerei, di morti viventi ci pare davvero una mancanza di rispetto, innanzitutto, per chi ha deciso di metterci - letteralmente - la faccia; e ci pare, inoltre, un tentativo di rimozione di ciò che è stato, delle domande che la mostra porta inevitabilmente con sé. Dieci anni dopo, è assolutamente comprensibile, la volontà è di andare avanti ma non si può farlo, semplicemente, lasciandosi alle spalle il vissuto della comunità, chiudendolo in un cassetto, mancando una matura rielaborazione.
E ricostruirsi come comunità, in ogni senso, non può passare dal tentativo di trasformare il centro storico, il luogo identitario per eccellenza, in una sorta di vetrina scintillante, manifesto delle magnifiche sorti della città, volta esclusivamente al futuro e dimentica del passato, in una ottica che, tra l'altro, pare proprio intrecciarsi con la continua ricerca di decoro di facciata che caratterizza altre scelte politiche assunte dall'attuale amministrazione. Ciò che disturba va rimosso, subito: è ciò che accadde allorquando apparve alla Fontana delle 99 Cannelle l'installazione artistica delle mani che sbucavano dal terreno, a denuncia delle morti nel Mar Mediterraneo.
E' per questo che abbiamo colto appieno il senso profondo delle parole della psicoterapeuta Clementina Petrocco, in una lettera aperta inviata alla presidente dell'associazione "Segno", Anna Maria Marra. "Seguo da settimane le polemiche che stanno accompagnando la mostra di Roberto Grillo, promossa dalla Vostra Associazione, e per la quale anche io ho prestato il mio volto e la mia visione del ricordo, della memoria e del futuro. Ritengo giusto esprimere il mio pensiero, professionale prima ancora che personale", le sue parole.
"Roberto mi ha chiesto di esserci, per il mio lavoro di psicoterapeuta, svolto sia nel 2009, e ancora oggi, ma anche nel 2016 ad Amatrice e poi a Rigopiano, quando ho messo a disposizione la mia professionalità per aiutare a risolvere il trauma, il dolore, per aiutare ad andare avanti. In questa mostra …Io ci ho messo la faccia. In molti mi hanno chiesto perché. Perché ci credo, perché ogni giorno mi incontro con il prima, il durante ed il dopo delle persone. Parlare di queste foto, cercare di capirne il significato, vuol dire parlare dell’individuo e del collettivo, del prima e del dopo di ognuno, di ogni morte, ogni separazione, ogni perdita, ogni catastrofe privata o pubblica che ognuno di noi vive. Parlare di questa mostra fotografica vuol dire parlare di perdite, di dolore lacerante, di sensi di colpa che ci accompagneranno per tutta la nostra vita. Tre anni fa il terremoto di Amatrice ci ha messo di nuovo di fronte a morte, distruzione, macerie, senso di colpa, dolore senza fine. Molti sfollati vivono oggi a L’Aquila: la mostra è anche per loro, è per tutti, ognuno di noi che ha le proprie perdite. Parlare di questa mostra significa altresì parlare di superficialità, negligenza, senso di onnipotenza e molto altro ancora".
Questa mostra è per non dimenticare, per ricordarci ogni giorno di 'fare diversamente'.
"Abbiamo il dovere della memoria e alla memoria. Tutti noi abbiamo vissuto un trauma, 'commozione psichica imprevista e accompagnata dall’illusione che una cosa del genere non poteva capitare, non a noi'. L’orco è arrivato di soppiatto, la madre terra, da mater familias accogliente si è trasformata improvvisamente in matrigna cattiva che ci ha ucciso, ha ucciso i nostri figli, i genitori, gli amici, colpendo in maniera feroce ed indiscriminata e poi ci ha scacciato, distruggendo le domus, rifugio sicuro, la polis dove c’era vita, relazioni, incontri, arte . Siamo stati tutti siderati, ma di fronte alla perdita dei propri cari e di una parte di sé, reale o immaginaria, abbiamo, nel tempo due possibilità: il diniego o l’elaborazione. Il diniego è un modo di difesa che consiste in un rifiuto da parte del soggetto di riconoscere la realtà di una percezione traumatizzante. Quindi determinati aspetti della realtà esterna oppure del proprio vissuto non sono riconosciuti, anche quando questi appaiono evidenti agli altri. Si tende a evitare di entrare in contatto con la esperienza, le rappresentazioni di sé stesso o degli altri o i significati emotivi a queste connessi, nel tentativo di tenere a distanza determinati temi conflittuali, quindi si tende a dimenticarli a dire che ormai è passato, che dobbiamo andare avanti. E dobbiamo andare avanti ma ricordando ed elaborando! Il ricordo lo dobbiamo ai morti ed al passato di ognuno di noi! L’elaborazione del trauma e del lutto, lo dobbiamo ai vivi che sono rimasti senza, ai nostri figli, a noi stessi. Elaborare significa entrare nel dolore, attraversarlo in tutte le sue fasi, dalla siderazione alla negazione, alla colpevolizzazione, alla accettazione, al perdono di noi stessi per arrivare al superamento, alla speranza, alla rinascita: questo processo ci permette di soffrire in maniera diversa e di continuare a dare vita sotto innumerevoli forme".
Il diniego ci blocca, senza passato, senza presente, senza futuro, solo con traumi e angosce che a livello epigenetico trasmettiamo alle generazioni future.
"Elaborare per 'ricostruire'. Costruire significa fare qualcosa che abbia una struttura. A livello personale la ricostruzione riguarderà la ferita narcisistica a monte del trauma, e ampliata dal trauma. A livello sociale riguarderà una nuova organizzazione del sistema, che rispetti gli individui nella loro dignità, li agevoli nel soddisfacimento dei loro bisogni primari materiali e affettivi, e sviluppi una cultura del senso di comunità. Questo il senso della mostra, nelle foto ci sono persone vive che hanno vissuto e attraversato a vario titolo il trauma, nei volti c’è a destra il passato, nel centro il presente, a sinistra il futuro con la voglia di andare avanti, di rinascere e contemporaneamente di non dimenticare, a monito di tutti i drammi che ogni ora si consumano nel mondo. Per questo ci ho messo la faccia".