Ventunesima tappa del viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma di Ford Prefect. Oggi ci spostiamo dal centro alla periferia: saremo infatti a Pettino. Buona lettura. [leggi qui tutte le puntate di Praticamente Innocua]
"You can't judge a book by the cover", cantava cinquant'anni fa Bo Diddley.
E' vero, non si può giudicare un libro dalla copertina. Né una città solo dai suoi monumenti.
Una città è quel groviglio di istanze, gruppuscoli, cerchie, quartierini, parrocchie, palestre, locali e stadi che gravitano intorno ad un centro di massa che qualche contadino medievale, o soldato romano, o lanzichenecco disertore, o fraticello eresiarca in fuga dal mondo ha eletto qualche secolo fa a sua dimora e intorno a cui, pian piano, si sono accatastate esistenze e alternate sorti, sono spuntate case e piazze e chiese e fontane, si sono affinati dialetti e radicate usanze.
Parafrasando una celebre frase (è evidente che oggi mi sento in modalità citazionista) una città è quella cosa che vive e cresce mentre qualcuno tenta di pianificarla.
E se è difficile darne una descrizione in forma compiuta, è facile dire cosa non è una città: una città non è una cinta muraria che racchiude un centro-museo, per quanto splendido e traboccante tesori architettonici.
In questi cinque anni di post-sisma l'equazione "L'Aquila = centro storico" è stata issata come un vessillo della campagna per la ricostruzione da molte parti. Ma è una corrispondenza eccessivamente semplificatrice, concettualmente sbagliata e nemmeno troppo velatamente classista che riduce una comunità alla sua culla senza tener conto della complessità delle sue propaggini fisiche e culturali, e rischia di far perdere di vista le direzioni future verso cui questa città ferita fluttua.
Per cui, dal momento che il fine ultimo di questa guida è quello di dare una lettura quanto più completa dell'Aquila di questi anni, oltre a generare la massima quantità di malumore possibile tra i vetero-aquilanisti, il nostro viaggio si sposta oggi dal centro alla periferia, alla scoperta di un mondo che non troverete nei libri di arte o nella cronaca di Buccio di Ranallo, ma che di questa città racconta tante cose ignote ai sampietrini del Corso.
Oggi quindi ci addentriamo nei meandri di Pettino. Per chi legge queste righe nella convinzione che si tratti di una guida vera (del resto c’è gente che da una settimana lancia petizioni online per la ricostruzione di Lostignano) specifichiamo che Pettino è un quartiere periferico che si estende nella parte occidentale della città, addossato alla montagnola omonima, sviluppato secondo una portante est-ovest che sembra invogliare all'inserimento di strutture longitudinali quali, ad esempio, un cavalcavia autostradale, una metropolitana di superficie, un elettrodotto o, per dire, una faglia.
Come la gran parte della periferia aquilana, nei primi anni Settanta Pettino era poco più che contado. Metternich l'avrebbe probabilmente definito "un'espressione geografica". Casupole di sapore marcatamente villico, di cui resistono sparute testimonianze fino ai giorni nostri, ne punteggiavano il profilo. Ma la Grande Ruota della Storia era sul punto di girare anche per quest'angolo di mondo, e già magnifiche sorti e progressive si profilavano al suo orizzonte.
L'anno fatale fu il 1975, segnato da due eventi che stravolsero l'equilibrio della zona: l'apertura della tratta L'Aquila Est-L'Aquila Ovest della A24 e l'approvazione del Piano Regolatore.
La A24 venne fatta proseguire dal capolinea di allora (l'uscita dell'Aquila Ovest) lungo tutta la lunghezza di Pettino con un viadotto che ormai caratterizza lo skyline cittadino più della silhouette di Collemaggio, prima di immergersi dalle parti di San Francesco in due gallerie che sboccano dalle parti dell'Aquila Est.
Come sempre nella storia dell'Aquila, due fazioni si contendono la fiaccola del Vero: il Partito della Necessità ritiene che quello e solo quello potesse essere il percorso dell'Autostrada, e sottolinea come quel viadotto non deturpi affatto il paesaggio cittadino, donando semmai all'insieme quel tocco di modernità su sfondo antico che fa tanto metropoli (del resto anche i Parigini in quegli anni piazzavano il Beaubourg in pieno centro). Sull'altra sponda, il Movimento Cospirazionista interpreta il tragitto come la risultante di una somma di veti incrociati tra questo e quel costruttore, con buona pace del paesaggio. Maligni...
Sempre in quell'anno, il Piano Regolatore che avrebbe disegnato L'Aquila del futuro vide in questo assolato angolo di contado il posto adatto per piazzare qualche migliaio di neo-aquilani, attirati in città dalla nascente industria e dall'indotto delle caserme. Certo, c'era da risolvere questo fatto del rischio sismico dato che, pareva, sotto quelle zolle incolte che reclamavano a gran voce asfalto & civiltà correva una delle principali faglie tettoniche del centro Italia. Ma negli anni dei coloranti nelle aranciate, dell'amianto sui tetti e del piombo nell'inchiostro dei giornali figuratevi quanto poteva preoccupare una faglia che si sarebbe risvegliata di lì a (boh?) un milione o due di anni e che rischiava di frapporsi tra L'Aquila e il suo futuro luminoso. Quindi bastò cambiare su certe carte un "1" in "2" e la stagione delle ruspe e delle betoniere ebbe inizio. Tutti sappiamo che il Tempo sarebbe stato (tristemente) galantuomo.
Ovviamente, non si cementifica senza un criterio, non siamo una repubblica delle banane! Quindi il Piano Regolatore prevedeva, in cambio del rilascio delle licenze edilizie, la realizzazione da parte dei costruttori di luoghi di socializzazione, piazze, raccordi di verde pubblico che avrebbero dovuto evitare che Pettino diventasse un quartiere dormitorio.
Ora, il fatto che alle elementari l'espressione "quartiere dormitorio" mi sia stata spiegata con la frase "è un posto come Pettino" la dice lunga sul risultato ottenuto.
Del resto gli oneri a carico dei privati vennero tutti regolati con delle convenzioni con l'amministrazione locale, e la storia anche recente ha dimostrato che queste convenzioni all'Aquila valgono meno delle grida contro i Bravi nei Promessi Sposi.
Quindi si cominciò a edificare l’edificabile alla faccia della pianificazione, e grappoli di caseggiati si affastellarono senza una logica troppo stringente intorno a tronconi di strada che nascevano e morivano nel nulla. Poi queste cellule iniziali si raccordarono in un puzzle più complesso la cui principale dote non risultò certamente essere l'ordine.
L'ultimo trauma di natura umana che questo quartiere subì prima che la Natura si risvegliasse sotto i suoi piedi, ormai al volgere del nuovo millennio, fu la Metropolitana di superficie. Una storia grottesca e surreale, un'inutile incompiuta che, se l'Uomo avesse memoria, tante cose dovrebbe insegnare a chi ancora oggi, all'Aquila e altrove, insegue grandi opere non necessarie. La città, e Pettino in particolare, venne praticamente sventrata per far posto a quello che, molto onestamente, si sarebbe dovuto chiamare "tram", ma che il marketing proto-berlusconiano dell'allora amministrazione di centrodestra trasfigurò nell'imprescindibile e futuristica "Metropolitana di superficie". La quale avrebbe dovuto collegare Pettino al Centro, e più in generale alla Felicità, passando per via XX Settembre. Poi si scoprì che forse da lì non era il caso di passare. Allora si tentò per via Roma. Che però è larga come un corridoio, pendente come uno scivolo e protetta da più vincoli architettonici delle Terme di Caracalla. Quindi si scavò un po' a zonzo, si prese tempo, si abbandonò l'impresa e si cominciarono a pagare penali.
Inutile dire che nessuna Metropolitana di superficie ha mai attraversato i viali di Pettino. In compenso più di un ciclista e centauro ha dovuto far ricorso alle cure del vicino Ospedale per essere caduto sulle rotaie inutilizzate o per essersi schiantato contro le stazioni di sosta i cui marciapiedi sono alti come piccole scogliere.
Quel che resta della Metropolitana oggi è un involontario monumento all'Inutile, che ha nell'ormai celebre rotatoria che interrompe le rotaie il suo simbolo più famoso, mentre le scarpe lanciate da qualche buontempone o artista molto sperimentale che ciondolano dai fili mai utilizzati sono diventate famose in giro per l'Italia (scopro tra l'altro dalle sempre informate colonne di NewsTown che il fenomeno si chiama shoefiti. Quante ne sanno, questi…). I videomaker aquilani ne hanno fatto un totem, insieme ad altre bellezze locali come l'ormai scomparso Monte Macerie, sito della prima grande demolizione del quartiere.
Per quanto non sia certo un luogo di incontro che invita al passeggio, se vi aggirate senza fretta per Pettino alternando pigramente terza e seconda per la gioia della fila alle vostre spalle, tra le sue strade e i suoi cortili (e spesso distinguere le une dagli altri è arduo) si celano piccole perle come il ristorante Ernesto, baluardo della cucina aquilana che qui trova rifugio in attesa di rientrare all'ombra della torre di Palazzo, il negozio di prodotti alimentari dalla Romania, segnale importante di una città che si sta aprendo davvero, o il tempio della gastronomia di Arancinoland, che diffonde tra i palazzi di via della Comunità Europea i profumi della Sicilia a tavola.
Confesso che l'opinione corrente secondo cui Pettino è la quintessenza del degrado aquilano non mi ha mai trovato d'accordo. Avverto una certa distanza tra una disamina razionale della situazione (assenza totale di luoghi di intrattenimento, di verde pubblico "ordinato", di spazi sociali ad esclusione della parrocchia) e un approccio più emozionale che mi svela anche qualche punto positivo.
Sarà che sono cresciuto in periferia, giocando indifferentemente sui prati e nei parcheggi, apprezzando allo stesso modo il profumo dell'erba e il caldo che sale dall'asfalto nei pomeriggi estivi, ma a me questo scombinato intreccio di strade che curvano nel nulla, di tralicci dell'alta tensione da cui scende quel ronzio inquietante che sembra preludere ad una scarica che non arriva mai, di verde arruffato e incolto da cui emergono lamiere e mattoni abbandonati trasmette qualcosa. Banana Yoshimoto in non so più quale libro parla dell'estetica del cemento di periferia e, non so se le parole possono spiegarlo, ma qui questo concetto sembra prendere sostanza. E' una storia che chiede e merita di essere raccontata, perché parla di un disordine che si impone a qualunque pianificazione e lascia trasparire qualcosa che, in fondo, può essere anche confusamente bello, in sfregio a tutte le mancanze umane. Certo, una storia che dovrete scovare in piccolo tra le ultime pagine di qualche strana rivista.
Difficile trovarla in copertina.