Sabato, 08 Agosto 2015 00:00

Alla [ri]scoperta di Sabatino Ciuffini. Autoritratti: seconda parte

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Quarto appuntamento dell'approfondimento a puntate che NewsTown ha deciso di dedicare alla figura di Sabatino Ciuffini, poeta, sceneggiatore e intellettuale aquilano morto nel 2003. Prima puntata / Seconda puntata / Terza puntata

Di Anna Lucia Bonanni* - “Sono ingenuo, serio, ludico. Tre caratteri che non vanno bene a nessuna età. All’alba schizzo fuori dal letto e macino il caffè col fato, bevo il latte col peccato mortale, mangio il pane col Salvatore, indosso abito e scarpe con la predestinazione. Sono pessimista nei pensieri, ottimista nei sogni. Mi piace tanto il sole quanto la pioggia, il fracasso degli uomini e il silenzio. E vado per le strade con gioia, a cavallo delle cento molle del libero arbitrio che mi spingono di qua e di là, di ferro di vento di fuoco.”

E’ il denso e brioso autoritratto di Sabatino Ciuffini, che compare in una delle prose della sua raccolta Sfregazzi – Dispositivo poetico di emergenza, in cui alle liriche sono appunto alternate “brevi schegge di prosa acute come coltelli”, secondo la definizione del poeta Cesare Vivaldi contenuta nell’introduzione. (Qui notizie sull’autore e su questa raccolta)

Dopo la presentazione di Commatteru, il testo dal titolo in dialetto aquilano (che trovate qui), in cui Ciuffini ci dà una pregnante rappresentazione di se stesso, vediamo altri autoritratti poetici, partendo dalla produzione giovanile.

Nella sezione di liriche degli anni 1943-45, intitolata “In Caos”, troviamo l’espressione di un’anima tormentata e di un pensiero che si va formando in un tumultuoso ed estenuante interrogarsi: “Gli istanti delle mie giornate/ erano una catena / continua di perché.”

La terra gli appare una ‘trottola forsennata’, un ‘atomo folle’ , come folle è il suo essere, preda di un ‘cieco’ e ‘insano’ ‘spasimare’, di un ‘furore disperato’, di un “tormento/da tutti sentito e ignorato”. In quest’atomo folle è “Uno dei tanti che i piedi/ confitti […] tiene” e “crede il suo capo a diporto / libero, nell’infinito”. Ma questo vagare della mente è tormentoso e vano: “Non sono più di una lucciola / che vaga in un buio spietato”.

L’Affanno di questi anni – citiamo il titolo e i versi finali dell’ultima poesia di questa sezione giovanile – si chiude con “una lontana / luce che non c’era / che si avanza”.

Nonostante questo barlume di speranza e il desiderio caparbiamente perseguito di cercare nella grande città e in tutt’altro ambiente che quello in cui è vissuto uno sbocco adeguato alle sue aspirazioni, i primi anni romani del dopoguerra sono segnati da difficoltà terribili.

Così l’autore si presenta, facendo un amaro bilancio della sua pur giovane vita, nella lirica di apertura di Lettere Romane (1946-49):

Mi lagno, non mi lagno. Adolescenza
di fumetti e di sogni, giovinezza
di ferro e sangue – chi m’illude e inganna,
chi mi chiude la bocca col lucchetto.

La fame e la paura mi separano
dagli uomini; l’ipocrita e il padrone
mi regalano un paio di manette.

Buffone, mi vergogno delle smorfie
di ballerino, ma vorrei milioni
per vestirmi da Zanni e da Arlecchino.

Fischio come un allocco tra le piante,
piango come una nuvola. Da servo
sono ridotto a ladro e mendicante.

Questa poesia merita un commento puntuale perché non è solo un autoritratto, ma contiene essenziali elementi di poetica, sviluppati poi nella raccolta maggiore.

Il tono colloquiale dell’apertura – che sembra riecheggiare l’infantile filastrocca “m’ama, non m’ama” o adombrare il dubbio se valga la pena lamentarsi della sua sorte in mezzo alla crudele indifferenza degli uomini – riesce appena a stemperare con la sua ironia il tono drammatico del componimento, in cui Sabatino ripercorre le fasi della sua vita, dall’adolescenza tutto sommato spensierata al drammatico presente.

Lo spirito giocoso e desideroso d’avventura del suo carattere, richiamato anche in Commatteru, è icasticamente rappresentato nel riferimento alla passione per i fumetti. Vale la pena ricordare che gli anni dell’adolescenza di Ciuffini, nato nel 1920, vedono una vera fioritura di fumetti e riviste illustrate per ragazzi. Se negli anni Venti l’offerta era limitata al Corriere dei piccoli, storico supplemento del Corriere della sera familiarmente chiamato Il Corrierino, a “Il Balilla”, voluto a fini di propaganda dal regime fascista, e al settimanale di matrice cattolica “Il Giornalino”, negli anni Trenta c’è una vera esplosione del genere fumetto: compare per la prima volta Topolino, traduzione italiana del Mickey Mouse di Walt Disney, e poi i periodici Jumbo, Il Monello, l’Intrepido, l’Audace, L’Avventuroso.

I titoli sono rivelatori: in questi fumetti si trova di tutto, dai materiali d’avventura di provenienza britannica e statunitense, a storie italiane di ispirazione fascista; non manca il genere romantico e sentimentale e nel 1937 fanno la loro prima apparizione due personaggi diversi ma ugualmente fortunati: Kit Carson, che introduce il genere western nel fumetto italiano, e “Paperino”.

Ma il 1937 è l’anno in cui l’adolescenza di Sabatino si chiude tragicamente: la morte della madre – per lui già orfano del padre dall’età di sei anni - è una ferita che lascerà un segno profondo, anche nelle scelte di vita future, come quella di non avere figli ( “Se tu fruttavi al sole altro dolore,/ infecondo il mio fiore morirà”, Lamento alla madre morta).

Così, quando nel 1939 il regime proibirà la pubblicazione di materiali di importazione straniera, con l’unica eccezione dei personaggi di Walt Disney (per "il loro valore artistico e per la sostanziale modernità", ma anche perché graditi ai figli del duce), per Sabatino l’epoca dei fumetti e dei sogni è finita da un pezzo. O meglio, l’attitudine al sogno, così forte nella su personalità, rimarrà sempre viva, ma sarà costretta a fare i conti con una realtà che si è rivelata spietata: l’atmosfera di eroismo e avventura alimentata dalla propaganda di regime ha lasciato il posto al volto violento e oppressivo del fascismo e dell’occupazione straniera (“chi mi illude e inganna,/ chi mi chiude la bocca col lucchetto.”); la guerra ha fatto irruzione lasciando una traccia di ferro e sangue nella sua giovinezza e uno strascico di miseria che accomuna sì molti italiani nel dopoguerra, ma che per lui è indigenza assoluta.

In preda alla fame, termine che ricorre ossessivamente in questa raccolta, e alla paura, che mina nel profondo l’individuo incapace di soddisfare i propri bisogni ed è in balìa degli elementi (“paura della pioggia che pervade/le strade, e delle nostre scarpe rotte”) si consuma il distacco dagli uomini. La loro feroce lotta per la sopravvivenza è ancora guerra, pur se in altra forma: “qui rinforza furia di guerra il sapore del pane”(Ai miei amici inglesi). La fede nel vincolo d’amore tra gli uomini fratelli deve arrendersi alla loro indifferenza: “Nelle veglie lente confido / alle porte sbarrate l’amore / per gli uomini dormienti”.

Quei suoi ‘miserabili fratelli’ non gli lasciano nemmeno “Un’ampia soglia coperta, una remota / pietra fra gli alberi – di giorno / giaciglio di un cane”.
La conclusione è dolorosa e terribile: “Non siamo fratelli”.

Nella sua vita randagia descritta nelle poesie di Lettere Romane, lo vediamo dormire sui tram, sui gradini di una chiesa o sulle panchine del parco, “stanco sporco stracciato”, inseguito dal poliziotto, strumento della giustizia ipocrita e del padrone, che gli “regalano un paio di manette”, facendo conoscere a lui - ragazzo di campagna educato all’onestà e al lavoro, con una solida cultura classica conquistata da autodidatta – “l’orrore e la vergogna” della prigione.

Il ‘ricatto della fame’ lo costringe a farsi servo; e vorrebbe essere milionario per poterle invece indossare davvero, con orgoglioso e beffarda ironia, quelle maschere rese immortali dalla Commedia dell’Arte: lo Zanni, poverissimo e ignorante facchino di origine campagnola, o lo scaltro servitore perennemente affamato Arlecchino; è invece costretto a portarle a causa del bisogno, e dunque se ne vergogna.

Un ultimo tocco di ironia torna con l’immagine dell’allocco, immagine ambigua, o per lo meno ambivalente: da una parte l’uccello dal fischio lamentoso e l’attitudine solitaria e notturna, dall’altra, per i suoi occhi tondi e sgranati come in un’espressione di stupore, il simbolo nell’immaginario comune di una persona sciocca, ingenua, tonta.

La rappresentazione del suo copioso pianto è appena stemperata dalla leggerezza del paragone con la nuvola, ma la chiusa è drammatica: l’autore, con un’ulteriore discesa persino dall’infimo livello del servo, si definisce “ladro e mendicante”.

Non si può fare a meno di notare che la poesia, a partire dall’incipit, presenta una struttura dualistica e procede per accumulo di dittologie (adolescenza e giovinezza, , m’illude e inganna, fame e paura, ipocrita e padrone, Zanni e Arlecchino, ladro e mendicante), in qualche caso contrapposte (fumetti e sogni/ ferro e sangue): a sottolineare la soffocante mancanza di una via d’uscita tra due condizioni ugualmente impossibili: quella illusoria e ingannevole di un passato comunque tramontato, e l’altra duramente reale e concreta del presente, spietata e inaccettabile.

Tra le coppie che assumono valenza di termini chiave (oltre alla già citata parola ‘fame’ che rimarrà centrale negli sviluppi successivi della poetica di Ciuffini, diventando perno della sua visione del mondo), la dicotomia servo-padrone, perenne scandalo di un vivere associato che, in contrasto con qualunque illusione di progresso, continua a basarsi sulla violenza e lo sfruttamento, ammantati di fraudolenta ipocrisia. “Dal mendicante al gonfio padrone , il mondo si cementa e gira tra servitù e spavento” (Il secondo figlio).

In realtà, una via d’uscita , o meglio una via da percorrere, pur se con immane fatica, è indicata proprio a conclusione della poesia appena citata, Il secondo figlio, in cui Ciuffini si rivolge alla madre, dove a guerra e servitù sono contrapposte pace e libertà. “Sul nuovo giorno / che si apre ai tuoi nipoti, o mamma, chiedi / pace ma insieme chiedi libertà” .
Perché la pace non può essere acquiescenza e rassegnazione, e non vale nulla senza la libertà: quella libertà, materiale e morale, che Ciuffini ‘schiavo ribelle’ non smetterà mai di perseguire.

(continua)

*aquilana, docente di lettere

Ultima modifica il Domenica, 09 Agosto 2015 01:15

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