La Cattedrale metropolitana dei Santi Massimo e Giorgio è profondamente legata alla storia dell’Aquila e alla fondazione della città, a metà del Duecento. Più in particolare lo è per la nascita della diocesi, avvenuta il 22 dicembre 1256 con la Bolla di papa Alessandro IV, con la quale la diocesi dalla sede di Forcona veniva trasferita nella nuova città. Fu così che la chiesa dedicata ai Santi Massimo e Giorgio, già presente o in costruzione all’Aquila, ottenne il titolo di cattedrale.
Dopo la distruzione della città operata da re Manfredi nel 1259, il duomo venne ricostruito in fondo alla grande piazza del Mercato, dove si trova tuttora.
Nuovamente ricostruita dopo il terremoto del 1315, la cattedrale mantenne l’impianto duecentesco a tre navate, con abside e transetto, rimasto immutato fino al 2 febbraio 1703, quando quel terribile sisma la fece completamente crollare. La ricostruzione fu assai difficoltosa e si protrasse per oltre settant’anni. Poté essere riaperta al culto solo nel 1780, con l’interno del tempio portato a compimento. Rimase invece incompiuta la facciata, mentre la grande cupola progettata dall’architetto Sebastiano Cipriani rimase sulla carta. Non miglior sorte ebbe il progetto dell’architetto Giambattista Benedetti, nella seconda metà dell’Ottocento, che prevedeva la realizzazione della cupola, mai iniziata, e della facciata con stile neoclassico, i cui lavori si limitarono invece alla parte bassa.
Solo nel 1928 la facciata venne completata, con le due torri campanarie.
Il terremoto del 6 aprile 2009 ha provocato il crollo di tutto il transetto, più una consistente parte della sua parete sinistra e della volta e tetto dell’abside. Una ferita profonda, che la comunità aquilana sente ancor più dolorosa per gli anni trascorsi dal 2009, per i lunghi tempi per l’avvio della ricostruzione della cattedrale. Ora sembra che i problemi procedurali si stiano risolvendo, come ha dichiarato qualche giorno fa il Segretario regionale per i Beni Culturali per l’Abruzzo, arch. Stefano Gizzi, e che i lavori potrebbero iniziare nel mese di giugno 2018.
Di questo e di altro parliamo con mons. Orlando Antonini, Nunzio apostolico e insigne studioso di architettura religiosa e urbana - sempre attento alla qualità della ricostruzione e al principio di realizzarla “meglio di com’era” -, che assai cortesemente ha risposto alle nostre domande.
L’intera comunità aquilana sta avvertendo, tra le ferite più dolorose del terremoto, quella della mancata ricostruzione della ‘sua’ Cattedrale, gravata da un lungo iter procedurale. Bene ha fatto dunque l’arcivescovo Petrocchi, ringraziando il card. Bassetti il 28 agosto alla Perdonanza, ad invitare suo tramite papa Francesco all’Aquila per l’inizio dei lavori a San Massimo. Alla perorazione, che sottendeva un chiaro riferimento agli estenuanti tempi delle procedure, ha di recente risposto l’arch. Gizzi, Segretario regionale dei Beni Culturali per l’Abruzzo, definendo un possibile cronoprogramma che prevedrebbe l’inizio dei lavori all’inizio dell’estate 2018. Lei, mons. Antonini, sempre attento al patrimonio architettonico della nostra città e insigne studioso dell’architettura religiosa, quale idea si è fatta della vicenda del duomo?
A quanto mi consta, inizialmente la Cattedrale, ricompresa nell’aggregato ‘S. Emidio’ assieme alla Curia, al Seminario ed alle proprietà del barone de’ Nardis e degli Arduini, rientrava nella fattispecie privatistica di finanziamento come tutti i normali aggregati. Per il che si era subito proceduto, come imposto dalla normativa del momento, ad elaborare e depositare il relativo progetto, supponendolo di possibile immediata esecuzione – donde l’opzione a non coprire il tetto sfondato, per evitare spese supplementari. Poi però, inopinatamente, nel 2012 si cambia normativa. Si stralcia la Cattedrale dalla ricostruzione privata e la si passa a quella pubblica, provocando la complicata impasse che si sa, in quanto con la nuova legge lo Stato può non avvalersi della costosa progettazione già approntata dai proprietari, quella da esso medesimo richiesta con la normativa precedente! È la farraginosa incoerente burocrazia che ad altro livello sta paralizzando tutta la ricostruzione pubblica. Felicemente, le dichiarazioni dell’arch. Gizzi significano che almeno per la Cattedrale – non v’è chi non vede il forte valore riaggregante che San Massimo ha per il ripopolamento dell’asse centrale, della piazza del mercato e del centro storico in genere – si è finalmente trovata una soluzione all’impasse. Spero peraltro che si risolva bene anche il problema cantieristico, giacché sopraggiungendo nei lavori un’impresa diversa da quella che sta già lavorando nel consorzio privato, si dovranno coordinare tempi e modalità d’intervento sulle cospicue parti comuni esistenti tra aggregato privato e Cattedrale.
Parlando dei danni prodotti alla tela del Mascitelli, che dava una visione prospettica di una “cupola” finta, l’arch. Gizzi, nell’intervista rilasciata qualche giorno fa ad Abruzzoweb, penserebbe di ricollocare l’opera del 1823, quantunque recuperata dai danni solo in parte. Ma a questo punto, non sarebbe invece il caso di riprendere il progetto del 1887, del quale Lei ha parlato nel suo libro “L’Aquila nuova negli itinerari del Nunzio”, e realizzare finalmente per la nostra Cattedrale la cupola vera?
Nel volume del 2012 avevo proposto la ripresa del progetto di cupola vera per la Cattedrale, pubblicato nel 1887, supponendo che la presente ricostruzione post-sismica fosse stata concepita oltre che alla riparazione del danno e adeguamento sismico ed energetico degli edifici, anche, profittando dell’occasione data dal terremoto, alla correzione per quanto possibile degli errori urbanistici ed architettonici perpetrati in passato nel corpo edilizio della città, magari completando, nel caso si disponesse dei disegni, i monumenti crollati del tutto o quasi ma rivestenti valore urbano e panoramico. È il caso della cupola vera fatta conoscere a stampa nel 1887, ma mai potuta realizzare per mancanza di fondi. Una cupola vera su San Massimo regalerebbe allo skyline cittadino, con le cupole di San Bernardino, Sant’Agostino e del Suffragio, nonché la Torre Civica, un’articolazione in emergenze ben più dinamica di quella, appiattita e da città ancora terremotata, da noi ereditata dalla ricostruzione post-sismica settecentesca. Oggi non saprei quale recezione la mia proposta possa avere presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Molto dipende dalla posizione che i progettisti da un lato, e dall’altro i tecnici, cui la pratica verrà affidata presso il Mibact e/o Segretariato Regionale, hanno circa le teorie del restauro architettonico. La mia proposta di riapplicare sul campanile di San Silvestro la cuspide di cui si hanno testimonianze persino fotografiche è stata respinta, ma alla ritrovata Porta Poggio di S. Maria si è consentito di ricostruire l’arco di cui non si aveva alcuna testimonianza grafica. Quindi staremo a vedere.
Pare che in Italia, rispetto ad altri paesi europei come la Francia, continui ad osservarsi una posizione più rigorosa in materia di restauro.
Sì, per questo alcune mie proposte non potevano evitare di cozzare con la spinosa problematica delle teorie del restauro architettonico. Dette teorie com’è noto – faccio una semplice costatazione – nei circa 150 anni della loro storia son passate da una posizione estrema all’altra: dall’ottocentesco ‘restauro stilistico’ di un Viollet-le-Duc all’equilibrato ‘restauro critico’ del Brandi, per giungere, oggi, al restauro di ‘pura conservazione’, secondo cui i manufatti son da consolidare nello stesso loro progressivo naturale divenire, l’invecchiamento e/o il degrado. Così, nella Cattedrale, ad esempio, l’intervento dovrebbe limitarsi ad una copertura neutra del transetto, consolidando come sono i monconi di murature non crollati... Teoria nihilista, questa, valida certo per l’archeologia, ma è assurdo trasporla all’architettura viva e di zone altamente sismiche come L’Aquila dove, se non sostituite le parti distrutte dai sismi, le architetture verrebbero smantellate pezzo per pezzo da successivi terremoti, sì da non lasciar più brani autentici, un domani, da supportare in neutro. Non potendo immaginare quale altra teoria di restauro possa seguire prossimamente – in merito sembra essere ormai al capolinea, quindi magari il ciclo riprenderà, sotto altra forma, da quella del Viollet-le-Duc… – non sembri fuori luogo il completamento della Cattedrale con la cupola del 1887 che da amatore qual sono avevo proposto. Di certo una cupola vera sarebbe un più che giusto risarcimento a questa difficile vicenda procedurale che ha riguardato la ricostruzione della chiesa-simbolo della Città, San Massimo.
C’è anche il problema dei costi supplementari che un’aggiunta del genere comporterebbe. Ed altresì un allungamento dei tempi.
Per gli ulteriori danni, patiti dall’edificio sacro coi nuovi terremoti del 2016-2017, è comunque necessaria la revisione progettuale per la redazione del progetto esecutivo come richiesto dalla presente normativa. Ora, aggiungere alla revisione in parola la progettazione di un tamburo e di una calotta estradossata – con i materiali più leggeri possibile – sopra la base circolare del tamburo medesimo da ricostruire in ogni caso, avendone la ‘volontà politica’ non dovrebbe comportare ritardi significativi. Ed alla maggiore spesa per la realizzazione della cupola vera suppongo potrebbe farsi ricorso ad uno sponsor privato, attivando una procedura pubblico-privata.
Non sarebbe questa una straordinaria occasione per affermare, nella ricostruzione, quel principio da Lei postulato e sempre richiamato con puntuali argomentazioni, di ricostruire “meglio di com’era”, annettendo alla Bellezza non solo il suo valore intrinseco, ma anche un investimento duraturo per il futuro turistico della città e del territorio? Nel caso, sarebbe una scelta importante per dare alla Cattedrale un volto architettonico di pregio, rimasto finora sulla carta.
Sì, un volto pregevole sia architettonico sia, come detto, a livello panoramico, che la nostra Cattedrale fin’adesso non aveva ancora. Quanto ad un’Aquila ricostruita “meglio di com’era”, è recente quanto sottolineato da Lucia Sciacca, direttore Communication and Social Responsibility di Generali Italia, come cioè arte e cultura siano parte integrante dell’identità del nostro Paese e possano contribuire alla crescita culturale ed anche economica delle comunità. L’arte, la natura, la cultura, oltre che Bellezza nel suo valore intrinseco come Lei dice, possiedono un risvolto utilitaristico per cui possono, aggiunge la Sciacca, creare lavoro, “generare occupazione e sviluppo in modo diretto e indiretto dei territori”. Lo prova il fatto che “secondo Fondazione Symbola e Unioncamere, il Sistema Produttivo Culturale e Creativo nel nostro Paese ha sfiorato i 90 miliardi di euro, e impiega quasi 1,5 milioni di lavoratori e attiva altri settori dell’economia. La ricaduta in termini occupazionali quindi sembra evidente”. E cita i milioni di italiani in più che ultimamente sono entrati nel numero dei fruitori di arte e cultura.
Sebbene siano così duramente note ed evidenti le conseguenze della ristrutturazione industriale degli anni ’80 e ‘90, e gli effetti della globalizzazione dei mercati, c’è chi continua ad affermare che lo sviluppo produttivo dell’Aquila debba fondarsi prima di tutto sull’industria. Qual è il suo pensiero in proposito, mons. Antonini, e quali in particolare ritiene siano le prelazioni di sviluppo dell’Aquila e dei paesi dell’antico territorio che quasi otto secoli fa la fondarono?
Anche un profano comprende che al contrario di quello che esperti esterni di quando in quando vengono a dirci, L’Aquila non è adatta a diventare una città industriale, ed in ogni caso, come già avvenuto per la Siemens, sulle eventuali industrie che verrebbero, le dure leggi di mercato farebbero pesare sempre lo spettro della delocalizzazione. Spettro che invece non pesa sulla natura, l’arte, la cultura della città e del suo territorio, trattandosi di risorse organiche alle naturali potenzialità locali - e tra l’altro ecologicamente sicure, il che non è poco. Di qui l’ostinazione mia e delle associazioni culturali a segnalare alle istituzioni la necessità che la ricostruzione puntasse sulla qualità estetica oltre che tecnica, introducesse quindi in essa la categoria della ‘bellezza’. Mi ripeto: ricostruire L’Aquila puramente “com’era” senza programmarne il futuro la riporterebbe alla condizione di crisi di prima del sisma, ed una sua ricostruzione migliorativa ai fini del suo sviluppo turistico appare il solo concreto mezzo di creazione di posti di lavoro. Che nessuno dei nostri giovani debba più umiliarsi a chiedere aiuto per un impiego, ma tutti essere messi nelle condizioni di trovarlo da sé, di inventarselo anche. Con una città più bella sia per i restauri che per le riscoperte di tesori artistici nascosti venuti fuori dagli interventi anti-sismici, una città quindi più attrattiva di prima, e naturalmente con imprenditori illuminati e creatività, anche L’Aquila e l’Abruzzo montano potranno finalmente decollare. Ed una cupola vera sulla Cattedrale di San Massimo contribuirebbe efficacemente allo scopo.