Domenica, 16 Novembre 2014 09:16

Una breccia nel muro: terza intifada? Mancano i leader

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di Jacopo Intini - Sono passati ormai 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, ricordata in tutti i paesi europei e non, come simbolo della liberazione dai totalitarismi e da quelle dittature che hanno segnato l’Europa del Novecento. Immagine di un mondo duale e bipolare, rappresentato prima dagli schieramenti URSS e USA e che oggi vede contrapporsi l’Occidente all’Oriente.

L’esperienza tedesca risulta, infatti, essere ancora viva e, sebbene il suo sgretolamento abbia dato il via ad una fase storica del tutto nuova, mattone dopo mattone riprende forma, cementificata questa volta dalla retorica democratica perpetrata in particolar modo dal mondo occidentale. Un Occidente spesso esclusivo che utilizza il concetto di libertà come fosse una barriera divisoria che da un lato svolge una funzione strumentale di preservazione culturale, mentre dall’altro è sostenitrice di un processo di esportazione di "ways of life". 

Mentre in Europa, infatti, si festeggia il "Giorno della Libertà", in Medio Oriente c’è il "Giorno della Rabbia" durante il quale, sabato 8 novembre, a Beit Hanina, nord-ovest di Gerusalemme, un gruppo di attivisti ha aperto un varco nel muro dell’apartheid palestinese, costruito dallo Stato di Israele nel 2004. "Non importa quanto sia alto, è destinato a crollare proprio come a Berlino". Questo è quanto si legge in un comunicato diffuso dagli attivisti (fonte: Nena-News).

La barriera è alta 8 metri e si estende per circa 700 chilometri, sei volte quella della capitale tedesca. Costruita per ragioni di "sicurezza", è stata dichiarata illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia oltre che a violare norme di Diritto Internazionale. Il "muro della vergogna" infatti, come molti lo identificano richiamando l’apartheid sudafricano, oggi comporta un forte danno per l’economia palestinese, in più "interrompe la continuità territoriale e la coesione sociale oltre che a dividere famiglie e comunità". La libertà palestinese non è quella americana, tanto meno quella europea, ma è una libertà che inevitabilmente passa per la rabbia espressa con i sassi e repressa con il piombo.

La reazione diventa sempre più diffusa, nonostante lo scorso 2 novembre un emendamento al codice penale israeliano, con l’intento di restaurare la "pace", dichiara che il lancio di pietre contro obiettivi militari sarà punito con venti anni di reclusione. Intanto aumentano gli arresti, 1300 da giugno solo a Gerusalemme (il 40% sono minorenni) e la tensione sale. Nel quartiere di al-Bustan le forze di occupazione hanno effettuato quattro arresti negli ultimi giorni. Si tratta di giovani tra i 16 e i 19 anni, in più è stato emesso un mandato di arresto per un bambino di due anni a Silwan, Gerusalemme Est, al fine di "interrogarlo".

La Città Santa da settimane è teatro di duri scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano che aumenta i controlli e le limitazioni nell’area della Spianata delle Moshee, chiusa a tutti i musulmani con meno di 40 anni. Non mancano le provocazioni da parte israeliana; martedì scorso un gruppo di coloni ebrei si è addentrato nel complesso scortato dalle forze di polizia, insultando e dissacrando l’Al Aqsa e suscitando dure reazioni da parte palestinese.

La comunità internazionale teme la risposta di Hamas, in procinto di creare un "esercito" per la liberazione della Moschea, terzo luogo sacro all’Islam. Abu Mazen (Fatah) accusa Tel Aviv di facilitare l’ingresso di estremisti nella Spianata, inneggiando così a una "guerra religiosa".

"Noi chiediamo a voi [israeliani, ndr] di mantenere i coloni e gli estremisti fuori dalla moschea al-Aqsa e dai nostri siti sacri. Fate in modo che essi siano lontani da noi e noi lo saremo da loro". Intanto muore un soldato israeliano accoltellato a Tel Aviv da un giovane di Nablus e ne rimangono altri feriti tre, investiti da un auto nei pressi di Hebron.

La reazione si ripercuote anche questa volta sulle famiglie dei responsabili con punizioni collettive quali demolizioni e arresti. Non mancano disordini anche nei territori del '48 (attuale Stato di Israele). La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’uccisione a sangue freddo di un giovane di Nazareth di 22 anni. Netanyahu preme per il trasferimento a Gaza e in Cisgiordania dei manifestanti e degli attivisti palestinesi in Israele. Intanto la popolazione grida all’Intifada, ma emergono le divergenze politiche.

Il governo di unità nazionale palestinese Fatah-Hamas, nonostante sia stato fortemente voluto dai cittadini, incomincia a mostrare segni di cedimento. A Gaza il movimento islamico si trova a dover fare i conti, ora più che mai, con un embargo soffocante che rallenta la ricostruzione, con i continui attacchi a pescatori e contadini e con le dure pressioni internazionali. Ciò comporta una progressiva perdita di consenso soprattutto in West Bank, anche se nella Striscia rimane ancora alto.

Questo mentre in Cisgiordania l’accondiscendenza dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese sotto Fatah) verso le politiche sulla sicurezza israeliane apre le porte all’occupazione e la sinistra palestinese rappresentata dal Fronte Popolare non riesce ancora a sbocciare e a farsi guida di un popolo troppo frammentato, ma che vuole l’unità.

A dieci anni dalla morte di Yasser Arafat, la mancanza di una leadership generalmente riconosciuta e la forte disaffezione verso le forze presenti, in parte spiegate dalle delusioni politiche dei giovani, rallenta quella terza intifada tanto acclamata che, nonostante tutto, inizia ad emergere. Ma mancano ancora quei volti capaci di guidare i palestinesi in una lotta generalizzata che in questi giorni si sta rivelando essere veramente di massa e che vede la piena partecipazione di tutte le componenti sociali, incluse donne e uomini di ogni età ed estrazione.

La "terza intifada" intanto aspetta figure come Ahmad Sa’adat, segretario Generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, in carcere a Gerico dal 2001, accusato di essere la mente di alcuni attentati avvenuti in Israele e Marwan Barghouti, noto esponente politico di estrazione Fatah, in carcere dal 2002 e condannato a 5 ergastoli per presunte implicazioni in attacchi a obiettivi militari. Barghouti, un tempo forte sostenitore di una resistenza "non-violenta", nei giorni scorsi ha invitato i palestinesi ad intraprendere una lotta armata contro l’occupazione. L’improvviso cambio di rotta gli è costato 7 giorni di isolamento nel carcere israeliano di Hadarim dove è recluso.

Secondo alcuni dati diffusi dall’agenzia di stampa Nena News, in Israele "emerge che il 57,2% degli israeliani è favorevole a riprendere i negoziati di pace con Ramallah (precisamente il 52,5% degli israeliani ebrei a fronte dell’81,2% dei palestinesi israeliani). Soltanto il 28,5% suggerisce di cessare i rapporti diplomatici con l’Autorità Palestinese (33,1% degli ebrei israeliani, 5,7% dei palestinesi cittadini d’Israele)", mentre sul fronte europeo altri Stati si muovono per il riconoscimento della Palestina. Intanto 661 figure pubbliche israeliane invitano la Danimarca a muoversi per il riconoscimento dello Stato palestinese, seguendo l’esempio svedese. La votazione dovrebbe esserci entro la settimana. Risultati simili a quello inglese il mese scorso sono stati raggiunti dall’Irlanda, mentre il parlamento francese e quello spagnolo si preparano al voto, atteso per dicembre.

Intanto molti palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza scelgono il mare aperto con la speranza di raggiungere le coste italiane. Ma il Mediterraneo, come ben sappiamo, non è sempre clemente con i profughi che spesso vengono inghiottiti nei suoi abissi. L’evento più tragico risale al settembre scorso in cui 450 migranti palestinesi e siriani hanno perso la vita risucchiati dall’acqua e dall’inumanità dei trafficanti.

All’interno di queste dinamiche si inserisce l’immobilismo di un’Italia che l’8 novembre scorso ha consegnato all’aviazione israeliana un altro caccia bombardiere da addestramento rientrando negli accordi bilaterali siglati nel 2012 [leggi l'articolo a riguardo].

Un'Italia che, con le nuove proposte di legge sull’immigrazione, sta trasformando progressivamente il Mediterraneo in un enorme checkpoint, innalzando così con le sue politiche un muro su cui si spera un giorno verrà aperta una nuova breccia.

 

Ultima modifica il Domenica, 16 Novembre 2014 10:36

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