Martedì, 17 Febbraio 2015 13:55

La crisi libica, gli islamisti e i migranti: intervista a Stefano Torelli

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Lo scorso dicembre 21 egiziani copti vengono sequestrati nella città di Sirte, in Libia, dai militanti dello Stato islamico. Pochi giorni fa l'annuncio della loro esecuzione ed infine la diffusione del video che ne mostra la decapitazione. Già dalla caduta del regime di Gheddafi e l'intervento occidentale, una catena di violenza costante sta sconvolgendo la Libia. Ieri le aviazioni egiziane e libiche hanno sferrato attacchi aerei che hanno colpito obiettivi, tra cui accampamenti dell'Isis a Derna, Bengasi e Sirte. L'esercito libico ha fatto sapere che nei raid su Derna e Sirte sono stati uccisi 64 combattenti dell'Isis. Questa notte altri sette raid con decine di morti sono stati compiuti a Derna.

I militanti del gruppo islamico avevano già rivendicato altri attentati negli ultimi mesi in Libia, tra cui quello all'Hotel Corintha di Tripoli, forse il primo in cui gli abitanti hanno potuto realizzare realmente la presenza dei jihadisti in città. Il presidente del governo libico (o almeno dell'unico governo riconosciuto dalle potenze internazionali, quello di Tobruk), Abdullah Al Thani, si è rivolto all'Occidente chiedendo di sferrare un'offensiva aerea per stanare i jihadisti che controllano Tripoli,"altrimenti questa minaccia si trasferirà nei Paesi europei, specialmente in Italia".

Ma cosa sta succedendo davvero in Libia? E perché questa vicenda è cruciale per l'equilibrio geopolitico internazionale? A raccontarlo a NewsTown è Stefano Maria Torelli*, research fellow dell'Ispi, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.

Attualmente, qual è la situazione della Libia, dal punto di vista diplomatico?
La Libia ha sostanzialmente il problema di essere un Paese diviso in due. Ci sono questi due "fronti", cioè quello del governo, scaturito dalle ultime elezioni del giugno scorso, che si è inserito a Tobruk, fedele alle forze del generale Khalifa Haftar. Dall'altro lato, invece, c’è il sedicente governo di Tripoli che invece è ciò che rimane del precedente governo, a maggioranza della Fratellanza Musulmana. I due fronti, di fatto, combattono in Libia da più di un anno e questo ha creato una situazione di forte instabilità e una sorta di guerra civile. Inoltre, ha creato le condizioni che hanno fatto sì che potessero emergere forze ancor più radicali. Questi gruppi jihadisti, che poi si sono affiliati all'Isis, hanno conquistato roccheforti Derna e Sirte, producendo un'ulteriore minaccia sia per l'esterno che per la Libia stessa. Sappiamo, infatti, che nelle loro intenzioni c’è quella di continuare la loro avanzata fino a Tripoli e conquistare territori sempre più grandi in Libia. Quindi in questa situazione, dal punto di vista diplomatico, il nodo più grande da sciogliere sarebbe questa divisione interna tra i due fronti, senza la quale è evidente che sia difficile affrontare l'ulteriore problema dei Jihadisti. Il fatto è che la diplomazia internazionale, come spesso capita, non è d'accordo su quale sia il fronte da appoggiare. La soluzione dovrebbe invece partire proprio nel cercare un accordo tra queste due parti, altrimenti si rischierebbe di arrivare ad una guerra senza fine, in cui le due parti continuerebbero a combattere finché una non venisse annientata. E questo non farebbe altro che prolungare il conflitto.

Anche in Italia c'è un dibattito politico sulla questione libica. Lei come giudica la posizione del governo?
Innanzitutto vorrei capire davvero qual è la posizione. Nel senso che ci sono stati segnali abbastanza discordanti. Sabato, il ministro Gentiloni si è lanciato in una sorta di appello che prevedeva un intervento anche di tipo militare, e sembrava che tutto fosse pronto. In realtà, abbiamo scoperto che così non era. Forse era una boutade per capire quali fossero le posizioni a livello internazionale ma devo dire che questa proposta è stata accolta abbastanza freddamente. Soltanto la Francia ha sposato l'idea, cercando però consenso all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che sappiamo sarà difficile o impossibile da raggiungere, semmai la questione arriverà ad un consiglio di sicurezza. Dunque c’è stato un po' di dilettantismo del governo italiano nel gestire questa situazione e nel lanciare questa idea di intervento senza tracciarne neanche le caratteristiche. Ieri, il premier Renzi è tornato sui suoi passi, dicendo che non è previsto nei progetti del governo un intervento militare in Libia. E' come se, di fatto, avessimo lasciato fare all'Egitto che adesso sta bombardando alcune postazioni dell'Isis e stessimo aspettando per vedere cosa succede. La mia impressione, comunque, è che tra due o tre giorni sarà una questione più o meno rientrata e, almeno a livello mediatico, non se ne sentirà parlare così tanto.

Il premier Renzi ha però esortato l'Onu a lavorare "più convintamente".
Il fatto è che ultimamente il governo italiano nelle crisi che si sono svolte ai propri confini è stato messo un po' da parte. Nei giorni scorsi, con la crisi Ucraina è stato evidente come gli attori europei fossero la Francia e la Germania. Tant’è che sono stati Hollande e Merkel che si sono recati ai colloqui con Putin. Forse è anche per questo che il governo italiano ha voluto riacquisire qualche posizione, sfruttando la vicenda libica. E' come se avessimo voluto dire che in Ucraina siamo stati sì messi da parte ma perché, tutto sommato, il nostro interesse era un altro: la vicenda libica. Non ci sono state però azioni concrete, anzi. L'ambasciata italiana in Libia, l'unica rimasta aperta in questi mesi, è stata chiusa e l'ambasciatore e tutto il personale diplomatico sono stati fatti rientrare. Quindi, paradossalmente, l'Italia adesso ha una presa minore sulla crisi libica. Resta il fatto che chiaramente la Libia è un paese anche strategicamente importante, che si trova di fonte alle nostre coste. Questo fa sì che l'attenzione del governo e la volontà di trovare una soluzione sia maggiore, anche per un motivo di prestigio.

"Ci avete visti in Siria, ora siamo qui, a sud di Roma", ha dichiarato il boia dei 21 egiziani nel video. Questa minaccia rappresenta solo una manovra psicologica o c’è un reale pericolo per l’Italia?
Sicuramente è più propaganda che altro, ma dobbiamo stare attenti a sminuire questi messaggi, perché è evidente che non si possa abbassare la guardia. Non c’è una minaccia diretta, nel senso che questi jihadisti possano attraversare il mare ed arrivare in Italia, ma il messaggio dell’Isis potrebbe diventare una sorta di appello per indirizzare verso un obiettivo chi è già presente e radicalizzato sui nostri territori. Non possiamo escludere quindi che "lupi solitari" possano agire in maniera isolata, come è accaduto in Danimarca, in Francia, in Australia, in Canada e in Belgio.

La decapitazione dei 21 egiziani è stata ripresa da una telecamera ed il video, diffuso via Twitter da un account che sostiene il gruppo islamico. Non è la prima volta che i terroristi utilizzano i social network. Si tratta di una sorta di terrorismo di ultima generazione?
E' una delle loro caratteristiche quella di diffondere messaggi, proclami ed azioni tramite la rete ed i social media. Questo anche grazie ad una serie di capacità tecniche abbastanza sofisticate che hanno gli operatori che girano i video.

Questo ha un appeal anche suoi giovani, cioè aiuta effettivamente le forze jihadiste a creare consenso?
Da un lato, sicuramente li aiuta a diffondere in maniera più efficace possibile il loro messaggio ma, dall'altro, l'obiettivo è anche impressionare noi, cioè il loro nemico. In questo modo l'Occidente non percepisce più questa minaccia come qualcosa di lontano, messa in atto da trogloditi o incivili. In realtà, sappiamo che abbiamo a che fare con persone che, anche dal punto di vista tecnologico, sono abbastanza all'avanguardia.

Da uno studio dell'Ispi emerge che in sette degli otto paesi arabi esaminati, il supporto all'Isis tra la popolazione non supera il 15%, ma c’è anche una rilevante percentuale della popolazione che non è d'accordo con gli interventi militari anti-Isis. Qual è realmente la posizione delle persone che vivono in queste zone?
Come in Iraq e in Siria, è una posizione molto scomoda nel senso che chiaramente non vi è un appoggio, nel senso di una partecipazione attiva alle azioni di questi gruppi jihadisti. Però, d'altro canto, nel momento in cui la popolazione che si trova assoggettata al controllo di questi gruppi, difficilmente riesce a reagire con le proprie forze. C'è una sorta di quietismo che in qualche modo fa il gioco dell'Isis, perché non c'è una resistenza popolare: non hanno i mezzi, non c’è una causa comune, non c’è un appoggio ideologico e neanche uno operativo.

La popolazione ha nostalgia di Gheddafi?
Questa è una questione dibattuta. Forse nostalgia no, però in molti notano che dopo la cattura di Gheddafi la situazione è degenerata sempre di più, fino ad arrivare all'attuale guerra civile. E' innegabile che il sistema costruito da Gheddafi che si basava su una serie di reti tra le varie componenti della società libica (anche con il pugno di ferro), crollando, abbia lasciato un vuoto. Che, invece di essere colmato da un processo di democratizzazione, è stato sopraffatto dalle armi.

In definitiva, secondo lei non si arriverà ad un intervento militare da parte di altri Paesi?
Non mi sembra che ci siano le condizioni di uno sbarco di nostri soldati o altri soldati in Libia. Per il momento stiamo lasciando fare il lavoro sporco all'Egitto. Al Sisi ha colto la palla al balzo per poter intervenire in Libia, cosa che forse avrebbe forse voluto fare da tempo e questo, al momento, fa l'interesse delle popolazioni occidentali.

L'Egitto ha chiaramente degli interessi propri nel fermare l'avanzata jihadista in Libia.
L'Egitto combatte la sua guerra. Già da più di un anno, da quando Al Sisi è salito al potere [risale al luglio 2013 il colpo di Stato che ha guidato e che ha messo fine al governo della Fratellanza Musulmana, prima di diventare, lo scorso 8 giugno, Presidente della Repubblica egiziana, ndr] ha come obiettivo quello di annientare la Fratellanza Musulmana: gli ha dichiarato guerra, li ha costretti alla clandestinità, li ha dichiarati organizzazione terroristica e nel far questo cerca anche di espandere il suo raggio di azione. Avere una Libia che sia in mano a jihadisti o che comunque trova altri elementi "moderati", come quelli della Fratellanza Musulmana che oggi sono a Tripoli, per l'Egitto è inaccettabile. Chiaramente gli serviva un pretesto per intervenire: questa avanzata degli jihadisti, con l'uccisione degli egiziani e con un Occidente titubante, gliene ha dato la possibilità.

Che connessione c'è tra gli ultimi eventi e le centinaia di migranti partiti dalla costa libica nelle ultime ore?
Sicuramente da una parte sono connessi. Non può essere solo un caso che da una costa del Mediterraneo si acuisce la crisi, e sull'altra arrivano dei migranti. Diversi sono invece i discorsi che vedono l'infiltrazione di terroristi tramite lo sbarco degli immigrati, visto che non ci sono prove, non ci sono state mai evidenze ed è anche difficile immaginare che eventuali jihadisti possano mischiarsi ai migranti per tentare una sorta di sbarco. Questa mi sembra proprio "fantapolitica".
 

*Stefano Maria Torelli è research fellow dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), e direttore responsabile della Rivista italiana di studi sull'Islam Politico, pubblicata dal Centro Italiano di Studi sull'Islam Politico (CISIP). La sua ricerca si concentra sugli studi mediorientali e, in particolare, sull’Islam politico, Tunisia e Turchia. Su queste tematiche, cura una rubrica settimanale per Sette, il magazine del Corriere della Sera.

Ultima modifica il Martedì, 17 Febbraio 2015 15:04

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