Mercoledì, 27 Marzo 2019 12:32

“C’è luce dietro di me, davanti il buio”

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Il Decreto-Legge del 4 ottobre 2018, il cosiddetto Decreto-Salvini su immigrazione e sicurezza, ha messo in discussione il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) che, da modello di eccellenza riconosciuto a livello europeo, rischia di scomparire in favore di una gestione emergenziale dell’accoglienza che non tutela né il diritto di asilo, né quello alla salute psichica, soprattutto per chi abbia particolari necessità, fragilità o sia vittima di torture e traumatizzazioni. Stiamo vivendo una fase drammatica perché ad essere compromessa è anche la possibilità concreta di accedere a un sostegno psicologico specialistico. Nei mesi, l’Ordine Nazionale degli Psicologi e vari ordini regionali sono stati compatti nel prendere, più volte, esplicita posizione avverso tale Decreto ribadendo, tra l’altro, che la promozione del benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità, espressa nell’art. 3 del nostro Codice Deontologico, viene di fatto lesa e fortemente limitata dalle nuove norme che intaccano il senso profondo della professione che abbiamo scelto di fare.
Da qui parte la mia riflessione, che scelgo di declinare in una mia giornata-tipo all’interno dello Sprar. Venite con me.

Il sole è alto e riscalda, anche se siamo solo a marzo e si sa come vanno le cose, in questo angolo di mondo che ci ospita e che ci obbliga all’impermanenza, che lo si voglia oppure no.

Il sole è caldo ma quando arrivo accendo lo stesso il termosifone elettrico, si spegne da solo quando va a temperatura e io ho un’inconsapevole necessità di aria calda in questa stanza, esposta a nord.

La luce che la invade entra da una piccola finestra che, va da sé, non è favore di luce diretta. Eppure è comunque troppo, oggi: la luce, l’aria calda, la bellezza della primavera che sta esplodendo intorno a noi, tutto diventa troppo davanti all’immensità e alla drammaticità dei racconti che stanno per impregnare la stanzetta, come talvolta la chiamiamo, tra di noi.

Lavoro sempre con la mediazione linguistica ma la mediatrice di oggi, in particolare, l’ho fortemente voluta qua.

Capita, talvolta, di avere a che fare con idiomi madre che poco si adattano a piegarsi in quegli imperfetti inglese, francese o italiano che pure utilizziamo come lingua ponte tra le parti, quando diversamente non si può.

Ho dunque un vantaggio, oggi, consentire a chi si siederà davanti a me di parlare nella sua lingua madre.

Un piccolo dubbio mi sfiora sul fatto che la mediatrice sia donna - velata, sorridente e bellissima - e i beneficiari tutti uomini, mi preoccupo delle possibili autocensure, chissà se riusciremo a far dire a queste persone anche l’indicibile, chissà se romperemo le barriere di diffidenza, silenzio, rimozione e congelamento che si alzano davanti al dolore traumatico, chissà se riusciremo a farli fidare e affidare a noi.

Condivido con lei i miei pensieri, lei mi rassicura rispetto alla tranquillità dei suoi connazionali.

I dubbi li fughiamo subito, perché glielo chiediamo direttamente: “Faccio la domanda fatidica?”, mi anticipa sorridendo, ogni volta.

È davvero in gamba questa giovane, è sveglia, intuitiva e mi è piaciuta soprattutto per questa sua caratteristica.

I beneficiari, dal canto loro, sono sereni rispetto alla sua presenza: c’è chi sorride, chi fa una battuta, chi dice che va bene in punta di labbra o solo con un cenno della testa.

Tutti ringraziano per la possibilità di usare le proprie parole, già così difficili da pronunciare, senza doverne cercare altre in una lingua che non appartiene.

Violenze. Vissute in prima persona, sopra alla propria pelle. Oppure assistite, non meno gravi, non meno dolorose, non meno devastanti per l’integrità della psiche e dell’anima, per chi ci crede.

Come si fa? Come si fa ad offrire conforto all’orrore della violenza?

Come si fa, a far elaborare un trauma? Come si restituisce dignità? Come si fa a fare carezze sopra a ferite e cicatrici? Come si risponde alla paura? Serve? Aiuta? Basta?

E voi terapeuti? Come fate voi, davanti a tutto questo?

Domande che arrivano spesso da chi ci si accosta con la curiosità nobile del non addetto ai lavori che cerca soltanto di capire.

Domande che noi operatori dell’accoglienza (tutti) ci facciamo ogni volta e forse non è tanto importante trovare la risposta giusta, quanto darsela, ognuno nel suo ambito, ognuno per quel che si può: ognuno cerca e trova il suo senso, davanti all’orrore. Ne va, anche, della propria integrità psico-emotiva.

Giorni fa, Giulia Chiacchiella, una collega psicologa di Medu (Medici per i Diritti Umani) arrivata a L’Aquila per presentare un lavoro scritto a più mani, ha utilizzato una delle più belle metafore che io abbia mai sentito da quando mi occupo di migrazioni (lo sapete, davvero tanto).

La prendo in prestito perché la sto portando con me nella testa, mentre lavoro: Queste persone non sempre le possiamo guarire e quello che talvolta possiamo limitarci a fare è “mettere un punto” per consentir loro di andare avanti.

Non intendeva un punto grammaticale, anche se sarebbe stato parimenti evocativo.

Intendeva proprio un punto di sutura, come quello che si dà in chirurgia o quando ti devono ricucire una ferita, solo che noi psicologi il punto di sutura lo mettiamo simbolicamente alle ferite invisibili della psiche che, poi, tanto invisibili nemmeno sono.

Ci mettiamo almeno un punto, perché anche se sappiamo che il nostro lavoro con i beneficiari è temporalmente limitato (in uno Sprar si resta 6 mesi, prorogabili solo in alcuni casi); anche se ci sono limiti linguistici, culturali (sappiamo bene che la figura dello psicologo in moltissime culture non esiste e si fatica, talvolta, a far comprendere ruolo ed opportunità insite in esso); pratici e logistici (“devo scappare a prendere l’autobus”, “devo andare in moschea”, “ho il corso di meccanica”); oppure resistenze da rispettare in ogni caso -“non ti voglio parlare”, “non voglio ricordare queste cose”, “va tutto bene, sto bene adesso”, crediamo anche che offrire a queste persone un sostegno psico-emotivo o psicoterapico sia davvero il minimo, la cosa giusta da fare, se riconosciamo all’aggettivo anche il senso di giustizia insito nella sua etimologia.

Non solo.

Offrire a queste persone uno spazio di ascolto diventa anche un modo per prevenire dei disagi più gravi che andrebbero a ricadere sui contesti sociali e comunitari dei Paesi che le ospitano.

Accogliere il disagio psichico significa non solo dare una risposta specifica ma anche lavorare in un’ottica di prevenzione, poiché quando si fa questo lavoro, passato presente e futuro vengono costantemente considerati lungo un continuum.

Non sono pezzi da integrare in qualcosa che pre-esiste a prescindere da loro: sono persone, con la propria storia, i propri pensieri e con la capacità di entrare in relazione.

Dunque, potrei dire che mi limito a tendere una mano.

Ascolto. Trascrivo i miei appunti. Argomento, spiego, rileggo e restituisco. Sono là, per loro ma soprattutto con loro. Se posso ascoltarlo io, loro possono arrivare a dirlo.

Perché la violenza taciuta continua a macerare dentro e solo dopo mesi di incubi, flashback, ricordi, pensieri intrusivi, tono dell’umore depresso e malesseri generali, se sei fortunato riesci a ributtarla dentro, ad allontanarla dal pensiero, a congelarla nel silenzio, a rimuoverla dalla coscienza.

Non sempre è un bene, credetemi. Il senso di colpa per essere sopravvissuti ai propri compagni di sventura, leva il fiato. E il sonno la notte, pure.

Oggi è pesante davvero.

Non va sempre così, però, vedo i mediatori entrambi provati, sia durante che dopo.

La donna, con la quale di colloqui alla fine ne faremo otto; e pure l’uomo, quell’amico fraterno che mi chiama sempre “cara dottoressa” in segno di rispetto, arrivato per aiutarmi con l’altro giovane che aspettavo stamattina.

A guardarli, all’altro capo della scrivania, sembrano quasi due fratelli; invece, condividono solo la nazionalità, il colore dei capelli e quello della carnagione.

Gli occhi lucidi del più piccolo, oggi, ci raccontano eventi che si fa davvero fatica ad ascoltare. Sembra la storia di un romanzo che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ma questa storia è vera, non è successa dentro alle pagine di un libro ed è in gran parte restata scritta, sotto forma di segni, addosso a chi ce la sta raccontando.

Segni - perché chiamarle cicatrici è riduttivo - impressi col fuoco sopra al viso, agli arti inferiori e superiori, al fianco destro: “se vuoi ti fa vedere”, “se vuole lui, sì”.

Alza di poco la camicetta, gli dico che per me può bastare. I segni, talvolta, basta accarezzarli con gli occhi per dar loro dignità.

Non vengono mostrati perché tu creda vera una storia, vengono mostrati perché hanno bisogno di essere riconosciuti e legittimati da qualcuno che ti confermi che tu esisti ancora.

Non so più se la pausa viene suggerita oppure invocata. Smezzo con uno il caffè che mi hanno portato nel mentre, offro un bicchiere d’acqua all’altro che ha ancora gli occhi vitrei, pieni d’acqua che non cade. In tre, intorno allo stesso tavolo, ci prendiamo una pausa troppo piccola davanti all’enormità delle articolazioni che prendono certe vite.

Del resto, vivo è vivo, se si pensa al fatto che quando è stato restituito alla famiglia, in coma, sembrava un sacco di stracci sanguinanti. Sembrava morto. Lo visualizzo, quasi fossi stata io stessa là.

Dopo anni, vedo le cose nella testa e le sento nella pancia, ormai. Il termosifone alterna sbuffi d’aria calda rumorosissima al silenzio improvviso di quando la stanza raggiunge la temperatura, vado a staccare la spina, dà solo fastidio.

Gli altri otto colloqui non sono da meno e raccontano l’orrore della Libia in quelle che per me sono sfumature consuete cui non mi stancherò mai di dare spazio, attenzione e voce.

Anche così si conferisce dignità, predisponendosi all’ascolto di chi è stato sul punto di essere annientato e invece sta qui, in carne ed ossa davanti a me. E parla. E vuole parlare.

Non c’è una persona che può dimenticare quello che ha passato. Anzi, vorrei scrivere un libro ma ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a mettere insieme i pezzi”

“Fallo! Inizia, scrivi! La scrittura è anche terapeutica, ti farà bene, scrivi come ti viene e poi lo leggiamo insieme alla mediatrice, ti aiutiamo noi!”.

Non ve li raccontano mai bene questi giovani, ve li descrivono in mucchio come fossero indifferenziati proprio come scarti di immondizia. Invece, sono persone a volte così cariche di risorse interne da lasciar impallidire quanti di noi occidentali si lamentino del tempo piovoso o dello sciopero dei mezzi.

In molti hanno piena coscienza e consapevolezza, non solo di quanto sia loro accaduto - sanno, per conoscenza diretta, quelli che per noi clinici sono indicatori di un disturbo post-traumatico e te li elencano- ma anche di quanto accada in quei luoghi di violazione continua di diritti umani che sono -tra gli altri - i campi di permanenza ed attesa libici.

Sta succedendo proprio adesso, sta accadendo sotto i nostri occhi e davvero non possiamo fingere di non vedere o non sapere. Anche e soprattutto perché è già successo, nella storia.

-L’altra volta mi hai detto che ti capita spesso di ripensare a quanto hai vissuto.
-Sì, prima di più, adesso un po’ meno
-Fai anche degli incubi?
-Sì faccio incubi, cerco il più possibile di dimenticare ma se qualcuno mi racconta qualcosa o se vedo dei filmati sul telefonino ci ripenso sempre.
-Ti capita spesso di fare questi brutti sogni?
-Non tanto spesso ma se ripenso a delle cose prima di dormire, sì.
-Mi hai detto che sei stato due anni in un campo in Libia, ti va di parlarmene?
-Pensavo che non avrei visto il mondo ancora, che non sarei uscito vivo da quel campo
-Vi facevano lavorare?
-C’erano due sezioni, in una toglievano i reni alle persone per venderli, in un altro picchiavano le persone e le facevano lavorare, io stavo lì. In alcuni giorni ci mettevano nudi insieme alle donne e ci facevano marciare avanti e indietro.
-Senza motivo?
-Sì, quello che gli veniva in mente facevano, anche solo per noia. Ho visto ragazze violate davanti a questi miei occhi (la mediatrice indica sempre i bulbi oculari, con due dita, mentre lo dice, quasi sentisse il bisogno di offrire anche una traduzione mimica di quanto ascolta). Quando non ce le hanno davanti agli occhi sentono comunque le urla e se qualcuno si azzarda a dire qualcosa, viene appeso. Un suo amico è morto così e sono stati loro a doversi, poi, occupare di occultare il corpo sotto alla sabbia, visto che cimiteri non ce ne sono.
-Quanti eravate, più o meno?
-Più o meno 1000, uomini e donne insieme. Ogni tanto moriva qualcuno e lo buttavano fuori.
-Tu sei stato picchiato tante volte?
-Sì, tantissime volte, da non poterne tenere il conto, ci sono state anche le notti in cui mi bagnavano e mettevano la corrente sul mio corpo.
-Hai pensato di morire, mi hai detto…
-Sì, non pensavo più di vivere, quelli che conoscevo erano tutti morti
-Ti capita ancora di svegliarti la notte pensando che stai là?
-Sì, capita
-Ti capita di ripensare alle scariche elettriche e alle botte?
-Sì, che sia un dito o un braccio è il tuo corpo, lo senti
-Ti capita di sognarlo, hai detto… Anche da sveglio ti capita…?
-Sì, mi spavento anche quando passano le macchine ripensando a quel che ho vissuto… perché magari sono soprappensiero
-Ti sto facendo queste domande perché vorrei aiutarti a superare questi ricordi, noi li chiamiamo ricordi traumatici. Sono ricordi che lasciano traccia nel cervello e se tu vuoi io posso aiutarti, non dico a cancellarli, perché questo non lo posso fare ma a renderli meno disturbanti, meno tossici per la tua testa (1). Esiste un protocollo (2), un lavoro che possiamo fare insieme, pensato apposta per questo, ti va di lavorarci insieme, la prossima volta?
-Sì. In questo momento per me sarebbe importante farlo perché non ne posso parlare con la mia famiglia e avere tanto tempo libero mi induce a pensare tanto.
-Sono qui apposta. Sarà necessario farti ricordare e narrare gli eventi che hai vissuto ma lo faremo in modo controllato e al fine di aiutarti a rendere meno nociva la loro carica negativa, a neutralizzarla. Cercherò di aiutarti a superare il trauma.
- C’è luce dietro di me e davanti il buio, vedo troppo bene quello che ho vissuto, come se ci fosse una luce puntata sopra che illumina questi ricordi di continuo e ho il buio davanti a me, non vedo un futuro.
-Ti ringrazio per la metafora che mi ha donato, queste bellissime parole le userò anche con casi simili al tuo, perché ben descrivono come ti senti e quanto sia difficile per te -e per tutti quelli che come te hanno vissuto dei traumi- andare avanti. Ci proviamo insieme, coraggio!

Lo avevo pensato fin dall’inizio.

C’è luce, oggi. Tanta luce. Troppa luce. Stona con quello che sta accadendo nella stanza e anche intorno. Stona con il buio di un decreto legge che mette in discussione l’utilità delle ore di italiano e il sostegno psicologico per queste persone, oltre al rilascio di quel permesso umanitario assolutamente necessario in casi del genere.

Anche io vedo il buio, oggi e ho così tanto bisogno di aria da andare a camminare, appena finisco.

Camminare mi scarica. Metto in fila i pensieri e le parole, cucio quello che è mio con quello che ho ascoltato, quello che sta dentro con quanto è arrivato da fuori.

Penso che per quanto sarà possibile, continuerò a dare punti di sutura a testa bassa, come un mulo, credendo che sia la cosa più giusta da fare. L’unica possibile per ricucire una trama organica e restituire senso.

Queste mie parole di oggi, in parte trascritte testualmente, in parte ricostruite da dialoghi con persone diverse, umilmente, ve le dovevo. Anzi, le dovevo soprattutto a chi me le ha lasciate ascoltare, affidandomele come il più prezioso dei doni.

(1) Dovrei dire psiche ma tendo a semplificare il mio linguaggio in base all’interlocutore ed in questo caso sto parlando con una persona che non solo è di un’altra cultura ma che non è mai andata a scuola, prima di arrivare in Italia.
(2) L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è un protocollo psicoterapico validato e considerato elettivo nel trattamento dei traumi. Consente di trattare i ricordi disturbanti la cui naturale elaborazione è stata bloccata dall’intensità di un’esperienza traumatica.

*Ilaria Carosi è psicologa e psicoterapeuta. Si occupa di migranti, richiedenti asilo, rifugiati e politiche dell'immigrazione dal 2000.

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