Quinto appuntamento dell'approfondimento a puntate che NewsTown ha deciso di dedicare alla figura di Sabatino Ciuffini, poeta, sceneggiatore e intellettuale aquilano morto nel 2003. Prima puntata / Seconda Puntata / Terza Puntata / Quarta Puntata.
di Anna Lucia Bonanni* - Come disse Silone, dato che il patetico non può essere espulso dalla vita umana, per renderlo sopportabile è utile accompagnarlo con un po’ di ironia.
Sabatino Ciuffini, che un temperamento giocoso l’ha sempre avuto, ha imparato nel corso del tempo a maneggiare molto bene questo formidabile strumento dell’intelligenza. Se nell’autoritratto esaminato nella scorsa puntata di questa rubrica (Mi lagno, non mi lagno) la condizione d’indigenza assoluta in cui si descrive è così drammatica da lasciare davvero poco spazio alla possibilità di ironizzare su stesso, negli ultimi due autoritratti poetici che presentiamo qui, il tono è decisamente cambiato.
Del resto, il lasso di tempo che separa la composizione delle poesie Lettere Romane, scritte tra il 1946 e il 1949 – da cui è tratto il testo sopra richiamato - e quelle di Sfregazzi, elaborate tra il 1960 e il 1980, da cui sono riprese le poesie che seguono, vede Sabatino affrancarsi dalla schiavitù del bisogno e inserirsi “nel mondo impervio del cinema”, iniziando la carriera di sceneggiatore, che gli permetterà nel tempo di ottenere finalmente un certo benessere.
Nella poesia che segue, tuttavia, quella condizione è ancora di là da venire.
LA COSIDDETTA (L’ora dei denti)*
Entro in un Mangia-e-fuggi
con l’abito da lavoro;
poco lavato poco pettinato;
scarpe bianche di polvere; in mano
giornali gualciti; sul braccio
agganciato un ombrello da pastore.
Tra un sogno e l’altro è arrivata
l’ora dura dei denti.
M’intrufolo fra donzelli blu
di natica, damine preti
negri operai gentarella.
Sono un po’ storto, patito;
un po’ triste, insolente.
Ho fame, altro che appetito!
Che m’importa se la terra gira
verso est o verso occidente?
E’ un autoritratto dall’ironia impagabile. Come spesso accade nelle poesie di Ciuffini, l’attacco è colloquiale; in questo caso, poi, la traduzione non certo letterale del termine inglese Fast-food scaturisce subito un effetto comico - anche per l’allusione, voluto o no che sia, alla possibilità di scroccare un pasto, filandosela al momento opportuno.
Il lavoro cui si allude nel secondo verso non deve essere di natura intellettuale, perché non si porta un “abito la lavoro” per fare l’addetto stampa o l’aiuto regista. Ma fin qui non ci sarebbe nulla di strano e nemmeno tanto da ridere, se non fosse che tutto l’insieme della sua mise, degli accessori e della sua figura è veramente improbabile, e irresistibile. I giornali portati sotto il braccio (quei giornali su cui si avventa tutte le mattine perché c’è “una signora che, nuda, riracconta / tutta se stessa, la vita”) sono sì gualciti, a rafforzare l’effetto disordinato dell’insieme, ma segnalano un’abitudine alla lettura e contrastano vistosamente con l’ombrello da pastore, pure agganciato al braccio. Sono i particolari che fanno la comicità: qui non è l’ombrello in sé che suscita ilarità, ma è il fatto che sia da pastore a creare l’effetto comico, evocando peraltro la condizione di chi vive perennemente all’aperto, proprio come i pastori, soggetto a tutte le intemperie.
I sogni non lo lasciano mai, ma certo non possono sottrarlo alle necessità più elementari e dunque ecco arrivare “l’ora dura dei denti”: l’allitterazione contenuta in questo verso costringe la lingua a battere, è proprio il caso di dirlo, e non metaforicamente, dove il dente duole; su quei denti che ricorrono spesso nelle sue poesie a significare l’immediatezza del bisogno, e la durezza della fame.
Segue, come una rapida carrellata, uno sguardo sarcastico sulla varia umanità che lo circonda. Del resto, anche lui è un bell’esempio di quel campionario, storto e patito, e con quell’aria insolente – altro tratto distintivo e costante del suo carattere.
E finalmente l’esclamazione: “Ho fame altro che appetito!” La fame è fame, non si può dare attenuazione eufemistica di eleganza o civile ‘sprezzatura’ chiamandola diversamente! E di fronte ad essa, non c’è interesse scientifico o filosofico che tenga.
Gli anni sono passati, i tempi bui della fame finiti. Ciuffini è diventato un elegante e distinto signore, vestito con gusto e anche con un certo lusso. Ecco un ritratto decisamente autoironico e ancor più tagliente nei confronti della superficialità e della vacuità di chi lo addita come esempio solo per saper abbinare le camicie.
IL VUOTO
Vesto un abito blu lava-indossa,
scarpe nere di lama, cravatta
di seta rossa. Leggero
di capelli, svelto di passo,
vuoto di pensieri il cervello,
testa eretta al vento, elegante
nelle mosse – ma che cinciallegra!
che puledro di razza o trotella! –
fendo con forza l’aria, conquisto
Piazza Mincio e Via Tagliamento.
Sussurra all’uomo la donna: “Hai visto?
quello sì che sa camminare
con eleganza e vestirsi con gusto!
Prendi esempio da lui. La camicia,
lo dico sempre, deve essere bianca”.
L’inizio della poesia, proprio come nel caso di quella che precede, è di tono colloquiale e presenta una locuzione prosaica, lava-indossa, traduzione dall’inglese “wash and wear”, detto di quei tessuti che non necessitano di stiratura: un tocco di modernità che si aggiunge alla già notata eleganza. I versi brevi scanditi da pause e enjembement (“Leggero /di capelli, svelto di passo, /vuoto di pensieri il cervello,/testa eretta al vento, elegante / nelle mosse “) concorrono col ritmo all’idea di briosa e spigliata disinvoltura con cui l’autore ironicamente descrive i suoi gesti e il suo incedere; anche le immagini della cinciallegra, del puledro e della trotella – una piccola trota dal guizzo veloce e la livrea dorata punteggiata di azzurro – danno insieme un tocco prezioso, veloce e colorato alla descrizione.
Siamo molto lontani dal ritratto che Ciuffini fa di se stesso ne L’ora dei denti, quando si dipinge patito, sporco e spettinato, vestito in maniera improbabile. E ancor più siamo lontani dai luoghi evocati nelle poesie del dopoguerra, le terribili periferie romane, vere “tane di animali”, come il Mandrione, rese in seguito famose dalle immagini di Pasolini. Piazza Mincio e via Tagliamento sono al contrario tra i luoghi più favolosi di Roma, in senso letterale, perché le costruzioni che qui si ammirano, palazzi, villini, fontane, nati dalla fantasia visionaria dell’architetto che ha progettato questo singolare quartiere, sono un trionfo di Liberty, Gotico, Barocco, Art deco e altri stili ancora, in un insieme che suscita meraviglia e che non a caso è stato scelto per l’ambientazione di molti film, dall’horror al neorealismo alla commedia all’italiana.
La fame è un ricordo lontano, Ciuffini fa parte col suo lavoro di sceneggiatore di un mondo che vive di apparenza e illusione, e in questo mondo ha imparato a muoversi. Ma non inganni il tono leggero di questa poesia. La mutata condizione non ha comportato una diversa concezione della vita e del mondo, anzi. Come vedremo, quella fame patita resterà il simbolo della forza che governa l’universo, perenne spietata e insensata.
(continua)
Le poesie riportate e commentate nell'articolo sono tratte da Sfregazzi (Guidotti editore, Roma 1988).
* aquilana, docente di lettere