Palcoscenico e dintorni (15)
Il suo concetto di teatro e il “suo” TSA: intervista a Simone Cristicchi
di Annalisa CiuffetelliUfficialmente presentato alla cittadinanza Simone Cristicchi, il nuovo direttore artistico del Teatro Stabile d’Abruzzo, giovedì 21 ha raccontato la sua idea di cosa sarà il TSA nei prossimi tre anni e il suo concetto di teatro.
Lui, poeta chansonnier, autore di monologhi civili, direttore artistico di un festival basato sulla narrazione ad Arcidosso e giovane di successo in un’Italia che cerca la via d’uscita da un’impasse confusa si è presentato portando una novità che in realtà parla del passato genuino, quello della tradizione degli attori padroni del palco, consapevoli della bellezza e lentezza della loro ragion d’essere.
“Bellezza” e “lentezza”, due parole fortemente sottolineate da Cristicchi che è partito dalla citazione di Carlo Levi “Il futuro ha un sapore antico” per personalizzare lo slogan in “Dal viva-voce alla voce viva” e concludere che ”l’emozione, lo stupore, la meraviglia, la commozione e tutto questo è il teatro che io voglio portare qui” perché, dice, “è dell’anima del pubblico che io mi voglio prendere cura.”
Un “teatro a km zero, come il prodotto tipico”, spendibile dappertutto e ramificandosi anche nelle scenografie naturali realizzato in maniera essenziale è il suo, basato perlopiù sulla narrazione, che vuole usare sia talenti locali che nazionali.
Ricchissimo è il programma, in linea con la sua storia, che ha in mente di realizzare per il Teatro Stabile d’Abruzzo nei tre anni del suo mandato. In cartellone spazia da giovani compagnie al dialetto, da musica cantautoriale trasformata in recital a teatro civile, musica popolare e fiabe, passando per l’insegnamento della bellezza del teatro di più piccini, ricostruendo la fiducia dei ragazzi nei confronti del teatro, il coinvolgimento degli anziani e persino lo svelamento del savoir-faire scenico agli insegnanti, prima di giungere a menzionare i “thé letterari” con la collaborazione di Marcello Teodonio, collaborazioni col CTB di Brescia per il suo nuovo spettacolo che dovrebbe debuttare nel 2019 e, spera, un progetto con Marco Paolini sulla Prima Guerra Mondiale, “Senza vincitori né vinti”, su testo di Francesco Niccolini.
L’occasione è stata propizia per intervistarlo.
Visto tutto il programma che hai presentato, secondo te, il teatro che ruolo ha oggi, nell’Italia della crisi?
S.C.: E’ l’unico luogo che è rimasto dove la comunità si può ritrovare. È un luogo reale, non virtuale, dove potersi interrogare, commuovere, emozionare, anche divertirsi perché un teatro d’intrattenimento, le commedie vanno benissimo, c’è spazio anche per quelle, però è rimasto un luogo dove le persone si possono toccare, in qualche modo, si possono guardare davvero in faccia. La battaglia sarà, piuttosto, eliminare l’uso dei telefonini a teatro, che è diventato una peste, ormai diffusa, purtroppo… questa brutta malattia di vedere la faccia illuminata dallo smartphone. Forse bisognerebbe mettere una multa, una diffida…
Quindi ti ispiri ad un teatro più antico rispetto ad un teatro più contemporaneo?
S.C.: A un teatro spoglio, meno tecnologico. Più spoglio e più all’essenziale. Perché è ovvio che è bello vedere lo spettacolo con 60 persone sul palco, con scenografie imponenti, ma lasciamolo fare magari a chi se lo può permettere. Io credo moltissimo nella forza, nel carisma dell’attore. M’innamorai del teatro proprio perché andai a vedere Gigi Proietti a 14 anni. E da solo Gigi Proietti ci mantenne in pugno, l’attenzione del pubblico, per tre ore di seguito. E io da allora, da quando ho visto lui – che tra l’altro è nato artisticamente qui a L’Aquila - ho sempre avuto il pallino: “Un giorno mi piacerebbe fare anch’io uno sforzo umano del genere.”
Quindi secondo te, è possibile vivere d’arte senza scendere a compromessi col mercato?
S.C.: Ma io sono la prova vivente di questo, nel senso che da 12 anni vivo delle mie idee e della mia creatività. E non solo vivo io, ma do da vivere anche a diverse famiglie con quello che faccio. E non sono mai sceso a compromessi né politici, né artistici con nessuno. Mi è sempre andata bene. Forse sono un miracolato. Perché fare questo lavoro e rendere la propria passione un lavoro è una delle cose più belle che ti possa capitare nella vita!
Da "Striscia la notizia" a "ScondizoliAmo": intervista a Stefania Petyx
di Annalisa CiuffetelliStefania Petyx, sorriso amichevole incorniciato fra i capelli raccolti a coda e il trench giallo, per un giorno ha abbandonato il suo bassotto ed è volata a L'Aquila, dove domenica 21 maggio è stata giudice dell'evento per cani e padroni "Tali e quali" in chiusura della manifestazione "ScodinzoliAmo" al centro commerciale L'Aquilone. E chi poteva farlo meglio di lei che nel proprio profilo Twitter si definisce "portatrice sana di bassotto rompiballe" e che, inviata siciliana di "Striscia la notizia", veste in pendant col suo inseparabile amico a quattro zampe?
L'ho incontrata.
Stefania, innanzitutto, come mai manca il bassotto?
S.P.: Eh, guarda, per la maledetta Ryanair che non fa salire i cani. Fregata da Ryanair!
Che peccato!
S.P.: Eh, sì! Ha separato due cuori! Perchè con il bassotto siamo sempre insieme. Comunque meno male: avrebbe avuto invidia per l’altezza di alani... Il bassotto soffre molto la statura. Quindi meno male che non ha visto queste cose.
E allora, visto che siamo in una manifestazione canina raccontaci un po’ del tuo bassotto. E’ femmina e si chiama Carolina, vero?
S.P.: Sì, è una femmina, si chiama Carolina ed è la mia ombra. Cioè: al di là del lavoro, a casa è il mio cane. Siamo tutta una cosa.
E’ la tua compagna di lavoro a “Striscia la notizia”...
S,.P.: E’ il mio capo! Sì, la chiamiamo ‘capo’ noi!
Quale è l’aspetto che ti piace di più del lavoro a “Striscia la notizia”?
S.P.: Che ogni giorno parli di cose diverse e poter stare col mio cane. Sono pochi i lavori in cui puoi lavorare col tuo cane. Quindi, come dire, avere la certezza di una persona onesta accanto. E io ce l’ho!
Come è nata la tua passione per il giornalismo d’inchiesta?
S.P.: Non penso che c’è un momento in cui nasce. La devi avere dentro. Ci nasci. Poi a un certo punto viene fuori come un bubbone. Bum!... Noi siamo un varietà. Se si cerca il giornalismo classico, non siamo noi. Noi siamo personaggi improbabili che dicono storie vere. Guardaci come siamo vestiti!
Ma tu sei anche iscritta all’albo dei giornalisti.
S.P.: Purtroppo sì!
In Italia è necessario fare giornalismo per avere legalità, secondo te?
S.P.: E’ un aiuto. Non è una certezza, ma è un inizio!
A “Striscia la notizia” unite giornalismo e comicità.
S.P.: Siamo liberi! Se c’è una cosa che fa ridere, è là! Cioè, la risata non va provocata. Grazie a Dio, le situazioni sono comiche da sole, devi soltanto evidenziarle. Non è che serve il battutone o altro. Sono proprio le situazioni che fanno ridere.
Ma tu fai anche sevizi giornalistici molto difficili...
S.P.: Ne faccio difficili, ne faccio leggeri, ne faccio comici. Come dire? Spaziamo!
E' arrivato a L'Aquila giovedì 20 aprile, invece che il 23 marzo come era inizialmente previsto dal cartellone del TSA che lo ospita, e ha strappato risate alla platea dell'Auditorium della Guardia di Finanza: Maurizio Battista si è prodotto in racconti della sua Roma, tra politica e gente che la popola, aneddoti della propria vita privata e di quella pubblica, improvvisazioni col pubblico e barzellette. Tutto questo in "Che sarà? Boh!", il suo nuovo spettacolo.
Ho colto l'occasione per intervistarlo.
Ogni anno proponi a teatro uno spettacolo di cabaret differente...
M.B.: Differente, perdonami se ti interrompo, no! Perché io metto e levo, metto e levo, aggiungo... Cioè: uno spettacolo nuovo, totalmente, non si può portare. Uno spettacolo nuovo è un kamikaze!
Lo dicevo perché io leggevo i titoli dei tuoi spettacoli e mi ponevo il problema: chissà dove trova l'ispirazione per tutti questi sketch.
M.B.: No, se dura due ore e mezza, non può essere due ore e mezzo nuovo! Parliamoci chiaro: è un po' di classico, un po' di novità. E' un minestrone di cose, perchè lo spettacolo nuovo di due ore e mezzo ogni anno non ci riesce manco Proietti; e infatti non lo fa!
Lavori da tanti anni nel cabaret. Pensi che, come tipo di spettacolo, sia cambiato nel tempo?
M.B.: Be', è cambiato il pubblico soprattutto. Ormai il pubblico è svezzato, ormai il pubblico c'ha internet, ormai il pubblico legge su Twitter delle battute più comiche dei comici, perciò è cambiato il pubblico, non so se in meglio o in peggio, questo non me lo chiedere! Però è cambiato, è cambiato!
E il fatto che in televisione ci siano tanti show e talent per il cabaret, secondo te, ha giovato allo sviluppo del settore?
M.B.: No, negativo! L'ultimo "Eccezionale veramente", fatto in maniera scandalosa, l'hanno pure tagliato. Non è facile fare un programma di comici. E' che prima ti servono i comici. E dove li trovi i comici se non c’è una gavetta, se non c'è, diciamo, una scuola di vita che ti prepara? Il comico non è mica il metalmeccanico che ti metti lì, ti impari a fa' il torchio... Il comico è ispirazione, è un dono, è talento. E infatti gli ultimi spettacoli li vedi: anche "Made in sud" ieri sera, ha fatto un ascolto da schifo.
Tu come sei diventato comico?
M.B.: Be' è il carattere. Levando stasera che sto un po' giù di morale, ma le altre sere sono su di morale. E' il carattere. C'ho un carattere un po' solare, così, invento, guardo, osservatore... Chiamiamolo un 'talento'. Chiamalo il talento, chiamalo come ti pare, perchè vista la cultura che c'ho io non potrei neanche parlare per strada. Però poi il dono mi permette di intrattenere l'altra gente e divertirla.
Tra i comici quali sono quelli che a te fanno ridere?
M.B.: Ma, nessuno, proprio nessuno! Ma non è che te lo sto dicendo per fare la battuta è proprio che non c'è. E' che so' tutti tecnici. Cioè: uno che lavora con l'auricolare, uno che lavora col gobbo, uno che lavora col suggeritore che comico è? Perdonami, il comico è comico: è spettacolo! Entri e racconti le cose, no!? Che me serve l’auricolare? E’ come nella vita: per parlare c’hai l’auricolare? E certe cose li fanno diventare meccanici, li fanno diventare operai di questo lavoro e a me non mi piace. Io faccio l’improvvisazione... che stasera inizio e non so che cosa succede.
Hai lavorato molto anche al nord, in programmi come "Zelig" e "Colorado". Trovi che ci siano delle differenze fra il cabaret romano e quello milanese?
M.B.: Guarda, non lo so, perché io vado da Roma, da Latina in su, fino a Lugano arrivo, per dirti. E io trovo un pubblico eccezionale, in teatri eccezionali. Mi trovo benissimo. Se no non c’andavo. Se ci vado vuol di' che trovo un pubblico caldo, affettuoso, ride, capisce quello che dico, a differenza di molti romani. Capito? Siamo un po' prevenuti su certe cose. Io vado al nord con grande piacere e grande onore.
Il preside Alessandro Preziosi... e "Classe Z"
di Annalisa CiuffetelliIl 17 marzo c'è stato l'ennesimo sciopero dei docenti contro la cosiddetta "Buona scuola" della Legge 107/2015. Uno dei tanti che si sono susseguiti in questi anni. Non è il caso qui di rievocarli e neanche di fare il riassunto dell’intricata situazione in cui versa la scuola in Italia, tra docenti necessari ma snobbati, programmi inadeguati alla società e ai suoi cambiamenti e via dicendo.
Ma sarà forse questo uno dei motivi per cui le tematiche scolastiche non smettono di affascinare il cinema. E' così che il 30 marzo scorso è uscito nelle sale un film ambientato nel mondo della scuola, uno fra i tanti prodotti cinematografici che si snodano tra aule e corridoi, alunni e professori, presidi e bidelli: "Classe Z", regia di Guido Chiesa. Ovviamente il film in questione non parla degli scandali e delle lamentele cui si accennava sopra, chè sono troppo recenti.
"Classe Z" è prodotto da ColoradoFilm, quindi è una commedia che vede tra i protagonisti alcuni tra i comici che popolano le nostre tv, come Roberto Lipari, vincitore della prima edizione del talent comico "Eccezionale veramente", nel ruolo del rappresentante degli studenti, Alberto Farina di "Colorado Cafè", nel ruolo del bidello, e Andrea Pisani (anche quest’ultimo di "Colorado Cafè", dove fa coppia con Luca Peracino nel duo Panpers) che ricopre un ruolo importante, quello del prof. Andreoli.
Il film, infatti, in una sorta di comico thriller psicologico o di storia all'inverso, parte dalla fine per cercare di capire che fine abbia fatto quest'ultimo e, soprattutto, se sia possibile reintegrarlo nell'insegnamento dopo che è scappato dalla famigerata classe z, ossia fatta di 'elementi' difficili, voluta dal Preside Frigotto, Alessandro Preziosi. Andreoli sarà l'unico che troverà il modo di aiutare questa classe scapestrata, ma lo farà a suo modo, cioè trattandoli alla stregua dei ragazzini a cui fa da animatore. Tra gli altri interpreti, Antonio Catania, Carlo De Ruggieri e la youtuber Greta Menchi nel ruolo di una stilosa studentessa.
[ADSERVER IN]
Non si vuole qui giudicare il film, gli interpreti (tra attori popolari, cabarettisti, emergenti e persino una youtuber), il pubblico cui è destinato (per lo più giovane, vista la qualità e l’età degli attori), la sua originalità o meno e i suoi rimandi ad altre opere (come il riferimento alla figura del professor Keating del film “L’attimo fuggente”) e neanche i metodi di insegnamento.
Ma è interessante porre in essere un riferimento sulla scuola, intesa come utilità e valore.
Ho deciso quindi di fare una domanda a colui che ricopre la carica di Preside e che perciò ne muove i fili. Una figura chiave. E che è un Preside sia nel film che nella vita reale. O, per la precisione, una persona che in "Classe Z" interpreta il Preside del Liceo in questione, mentre nella vita vera lo è di un corso universitario (oltre a essere un apprezzato attore): Alessandro Preziosi.
E la risposta che mi ha dato l’ho trovata interessate e su cui riflettere.
Nel film interpreti un Preside e nella vita reale sei il Presidente del corso di laurea in Comunicazione e DAMS della Link Campus University, cioè sei un Preside davvero. Tu credi molto nel mondo dell’istruzione?
A.P.: Io credo nel mondo della 'formazione', perchè poi ognuno può fare quello che gli pare. L'istruzione determina una specie di senso del dovere. La formazione invece è il presupposto di un bagaglio che ti servirà per tutto e non soltanto funzionalmente. Insomma, sono due concetti diversi che io tengo distinti. Infatti, la scuola istruisce e andavo malissimo. L'università forma e facevo paura.
'Romeo e Giulietta': Alessandro Preziosi e il suo Mercuzio. L'intervista
di Annalisa CiuffetelliSpettacolo punk, rock, duro. Questo è “Romeo e Giulietta” allestito da Andrea Baracco. Scheletrico, come le impalcature di scenografia, e insieme denso, come i movimenti scenici tra palco e platea. Ottima la tempistica registica e attoriale mantenuta per 3 ore di spettacolo. Con un gran bel ritmo. Veloce e fedele all’idea, espressa da Baracco nelle note di presentazione, che indica nel tempo una sorta di ossessione.
E’ strepitoso Antonio Folletto nel ruolo di Romeo. Bravo anche il resto del cast, a cominciare da Lucia Lavia in quello di una intensa Giulietta. Il regista esprime la propria visione della vicenda togliendo la comicità che pure è propria dei ‘fool’ del testo shakespeariano. Ne resta forse un po’ nella Balia, interpretata da Elisa di Eusanio. Nulla nel frate Lorenzo di Gabriele Portoghese.
La pièce è, per giunta, attualizzata in una sorta di dramma borghese. A suo modo, però. Baracco infatti piega sempre il testo alla sua volontà. E lo fa anche bene, a giudicare dal risultato in questo spettacolo, in cui si nota che non altera l’opera shakespeariana e, contemporaneamente, ne esalta in maniera quasi sadica sia la durezza e assurdità originaria sia la propria visione registica: è insieme personale, d’arte e ancorata a molto del teatro europeo contemporaneo d’innovazione.
In casi come questo il nome del regista va proprio menzionato. E a lui va attribuito l’allestimento.
In tutto ciò bisogna porre attenzione a uno dei personaggi simbolo di “Romeo e Giulietta”. Il ‘fool’ Mercuzio voluto da Baracco, infatti, è probabilmente l’interpretazione più complessa realizzata finora in teatro da Alessandro Preziosi.
Un ruolo diverso dai precedenti Cyrano e don Giovanni, sebbene l’agilità vista nel Bergerac ci sia tutta. Un ruolo ‘fisico’ e controverso. Qui Mercuzio non è un comico messaggero d’amore, ma un bullo. Ritroviamo Preziosi poi anche come Speziale. Ma si sa, nelle regie di Andrea Baracco domina spesso il surreale, l’onirico, il sintetico. In una sorta di arrendevolezza alla disperazione, quasi con divertimento vitale. Quindi, in un certo senso, ci si aspettava un suo ritorno in scena nel secondo tempo.
Ho intervistato Alessandro Preziosi per capire un po’ di più le sue scelte artistiche teatrali (che certo differiscono molto della sua immagine televisiva), tanto più che é sia interprete di uno dei personaggi cardine sia co-produttore di quest’allestimento.
In “Romeo e Giulietta” interpreti Mercuzio che è un po’ il ‘fool’ della storia. Perchè? Volevi interpretare un personaggio comico?
A.P.: No, però la natura comica di questo personaggio racchiude un po’ tutti i personaggi ‘fool’ della drammaturgia shakespeariana. Li racchiude in termini di oscenità, provocazione, arroganza, depressione... La comicità è molto scurrile in questo spettacolo… scurrile forse non è la parola più adatta. E’ molto volgare, volutamente volgare, volutamente irridente… Il canto d’amore diventa un canto invece proprio di contrazione della meliosità dell’amore.
Tu sei anche il co-produttore dello spettacolo con Khora.Teatro…
A.P.: Oh, yes! Io sono il co-produttore insieme al Teatro Stabile d’Abruzzo.
Perché avete deciso di farlo in chiave moderna questo spettacolo?
A.P.: La chiave moderna nasce dal fatto che tutti i testi shakespeariani quando vengono messi in scena nel XXI secolo, anche se sono messi in grande corrispondenza rispetto a quella che è la contestualizzazione storico-scenografica dell’epoca, risulteranno comunque moderni. Quindi la chiave moderna è il modo in cui gli attori recitano al di là di quello che hanno indosso e al di là del concetto installativo che si mette insieme all’aspetto narrativo della storia. Per cui la storia procede indipendentemente, con grande calamita di modernità rispetto allo spettatore. Compito del regista, dello scenografo del produttore è quello di riuscire a far sì che tutto sia omogeneo. E quindi questa poi diventa la chiave moderna. Ma la base moderna del testo è indipendente dall’allestimento.
Con Khora.Teatro, a parte questo spettacolo, avete messo in scena ”Odissea” di Derek Walcott e “The Flick” di Annie Baker. Il primo un Premio Nobel, l’altra un Premio Pulitzer. Perché questa scelta? Volete fare un teatro raffinato?
A.P.: No, siamo interessati ai premi, perché ricorda che “l’importante non è né vincere né partecipare, ma ritirare il premio!” Questo l’ha detto Bergonzoni!
È un modo per attirare persone a teatro… In questo caso sono premi relativi a grandi testi teatrali. Credo che sia una scelta di avvicinamento al pubblico di testi moderni, di testi contemporanei. E quale miglior testo se non un testo che viene riconosciuto da così qualificate giurie.
Nella tua carriera hai interpretato più volte gli stessi testi: in “Cyrano de Bergerac” hai fatto prima Cristiano dopo Cyrano, in “Amleto”, hai interpretato Laerte e Amleto, Sant’Agostino lo hai interpretato prima in una fiction tv, poi in un reading su “Le confessioni” e Mercuzio di “Romeo e Giulietta” in un provino. Perché ti sei imbattuto più volte in questi testi? Cos’è che ti attira in loro?
A.P.: Un po’ è il caso e un po’ è l’essere rimasto impressionato da chi lo interpretava, perché chi interpretava Amleto, Kim Rossi Stuart, è stato un punto di riferimento importante per come lo faceva. Il “Cyrano de Bergerac” Corrado d’Elia l’ha fatto 5000 - 5000! – volte quello spettacolo; l’ha fatto per 10 anni! Ed è un testo che mi è rimasto molto molto dentro. Sono testi che rielaboro perchè hanno mille significati ancora da scoprire.
Domenica 12 febbraio al Teatro Nobelperlapace di San Demetrio ne’ Vestini (AQ) è andata in scena “La pazzia di Isabella. Vita e morte dei Comici Gelosi”, pièce nata da un’idea del Prof. Gerardo Guccini (dell’Università degli Studi di Bologna) e realizzata da Marco Sgrosso ed Elena Bucci, cioè Le Belle Bandiere, una delle piccole compagnie più note del panorama teatrale nazionale.
Confesso che ero curiosa di vedere questo spettacolo in repertorio dal 2004.
In scena una sedia, un leggio e nel mezzo un mini-palco, sottolineati da luci puntate e drappi rossi a mo’ di quinta; una scena, quindi, scarna, atmosfere rinascimental-barocche, colori decisi, rosso, nero e bianco, e poi loro, Isabella e Francesco, ma anche un dottore e una dama, maschere della commedia all’improvviso, quell’arte drammatica che ha reso grande in tal senso l’Italia oltralpe e che ha fatto conoscere il teatro moderno all’Europa.
Un’arte, bisogna ammetterlo, di cui noi oggi sappiamo poco, se non per gli scritti d’epoca che ci sono giunti. Il teatro, infatti, è sempre un’attività artistica personale (anche Elena Bucci, incontrata a fine spettacolo, mi ha confermato che ciò che aveva appreso in tanti anni di studio con Leo De Berardinis, poi lei e Marco Sgrosso lo hanno di necessità adattato ai loro modi e al loro stile) difficilmente riproducibile da altri.
La Compagnia dei Gelosi, più ancora che altre compagnie, è giunta fino a noi in maniera quasi programmatica, tant’è che al di là del fatto che avesse lavorato per le corti più grandi ed influenti dell’epoca (come i Medici e Luigi XIV), oltre al fatto che Isabella sia stata una delle prime donne a scrivere per il teatro, oltre al fatto che poeti come addirittura il Tasso lodassero nei sonetti quest’attrice quasi come fosse una diva ante-litteram dell’epoca, è stato lo stesso Francesco Andreini, di cui ci rimangono le “Bravure” del suo Capitan Spavento da Vall’Inferno, dopo la morte della moglie nel 1604, a volerne tramandare le virtù in una sorta di memoriale.
E’, quindi, un caso che ancor oggi se ne parli? Direi di no.
Si può dire che loro fossero migliori di altre compagnie dell’epoca? Non si può affermare con certezza neanche questo, visto che di altri non abbiamo molte notizie.
L’unica cosa sicura è che gli Andreini hanno saputo sfruttare la comunicazione prima ancora di altri, prevenendo, in un certo senso, la sociologia
delle comunicazioni di massa e l’aspetto promozionale e divistico oggi invece in voga.
Lo spettacolo proposto da Le Belle Bandiere è quindi un semplice omaggio ad Isabella e Francesco Andreini. E piace che sia così. Per pudore nei confronti dei due attori realmente esistiti e dei quali persino le opere ci restano oscure visto che recitavano a canovaccio (non per niente la ‘commedia dell’arte’ è anche detta ‘commedia all’improvviso’), è bello che siano ora delle maschere a parlar di loro, ora che essi stessi, in prima persona, accennino alla propria vita e alle proprie interpretazioni. L’iniziativa di Bucci-Sgrosso si presenta quindi come una interessante idea-lezione, una sorta-di recital-spettacolo ben curato, per parlare di commedia dell’arte.
In un posto come la nostra penisola sembra uno spettacolo necessario, visto che oggi nel mondo c’è ancora chi identifica l’arte attorica italiana con la commedia dell’arte, sebbene questa si sia quasi estinta già nell’Ottocento. A tal proposito mi torna in mente quando nel settembre 2015 mi recai al Silvano Toti Globe Theatre di Roma, teatro notoriamente dedicato alla rappresentazione di opere shakespeariane, ed assistetti a “The comedy of errors”, commedia che un giovane Shakespeare trasse pedissequamente da Plauto e quindi intrisa di personaggi della commedia dell’arte; ricordo lo stupore quando il regista inglese Chris Pickles e i produttori-attori della compagnia anglo-emirata Bedouin Shakespeare Company sostennero di averla voluta allestire in vista del debutto romano proprio per omaggiare l’Italia creatrice della commedia dell’arte… senza quindi considerare che qui da noi la commedia all’improvviso è una rarità trovarla almeno da due secoli.
Di sicuro non si trova nei grandi teatri e negli Stabili (se si eccettua, con larghe vedute, quell’”Arlecchino servitore di due padroni” – che ho visto nel dicembre 2012 al Teatro Argentina di Roma - con Ferruccio Soleri nel ruolo del titolo, in tournée da circa 60 anni, nel quale comunque la commedia dell’arte è attutita tanto dalla scrittura goldoniana, quanto dalla regia strehleriana). La difficoltà nell’omaggiare una cosa che non c’è quasi più e per giunta di averlo fatto dall’estero sarà forse stato il motivo per cui la rappresentazione inglese, effettivamente, era intrisa di tecniche di comicità novecentesca (varietà, confessò Pickles) e quindi, sebbene fosse interessante, era poco ‘dell’arte’. E senza maschere (se non il duca di Efeso, Solinus).
Un altro sperimentatore sulle tecniche di commedia all’improvviso è Stefano Angelucci Marino, del quale, nel gennaio 2011, ho addirittura assistito a un adattamento di “L’avaro” di Molière realizzato sottoforma di commedia dell’arte e burattini, in dialetto chietino.
Una commistione con altre tecniche (all’apparenza biomeccanica - affidata perlopiù all’attrice Olga Mascolo, interprete di Florenzia), rimanendo purtuttavia nella tradizione, l’ho notata in “La ridiculosa commedia della terra contesa”, realizzata dalla compagnia con base pugliese I Nuovi Scalzi lo scorso luglio al Peltuinum Theater Fest (AQ), un accurato spettacolo di commedia dell’arte di Savino Italiano e Claudio De Maglio, con quest’ultimo e Carlo Boso, entrambi tra i maggiori conoscitori italiani di commedia dell’arte, che hanno formato i giovani interpreti.
Tutte quelle sopra menzionate sono pièces in cui prevale l’arte dell’attore applicata a personaggi che sono ‘tipi fissi’, o ‘maschere’, e ai loro ‘lazzi’, cioè sketch realizzati da soli o con altri. Fin qui sembra semplice, ma, a ben vedere, se si volesse ricostruire com’era la commedia dell’arte anticamente a partire da loro sarebbe difficile in quanto tutte hanno tecniche recitative e capacità attoriali dissimili l’una dall’altra. Si tratta di rappresentazioni a loro modo pregevoli (“La ridiculosa commedia della terra contesa” ha vinto premi anche a livello internazionale), ma si resta forse perplessi proprio a causa delle varie commistioni attoriali che sono state realizzate con altri generi affini.
Un altro grande esperto di commedia dell’arte, Antonio Fava, ha tenuto uno dei suoi laboratori a tema a Capestrano (AQ) nell’estate 2015, seguito poi in settembre da una dimostrazione pubblica basata sui lazzi presso l’Auditorium del Parco a L’Aquila, affidata agli allievi provenienti da ogni parte del mondo, dal significativo titolo “Zannanti”: in tale occasione ha spiegato che sebbene oggi la terminologia commedia dell’arte rimandi ad un concetto comico, anticamente indicava una tecnica, non un genere.
Infine, per rimanere nella tradizione merita di essere menzionato anche “Attori, mercanti, corsari” spettacolo ricco dei caratteristici tipi fissi e lazzi che Stefano De Luca ha realizzato in occasione di Expo 2015 nel Chiostro Nina Vinchi per il Piccolo Teatro di Milano (io l’ho visto in maggio) con gli attori del primo anno della Scuola del Piccolo, ricostruendo un tipico carro dell’arte animato dalle caratteristiche maschere attraverso una rete di brevi canovacci che si alternano a siparietti di un immaginario ‘dietro le quinte’.
Scenografie in mostra: intervista a Ferdinand Wögerbauer e Joachim Barth
di Annalisa Ciuffetelli
Si è aperta l’8 febbraio la mostra “Poetica e tecnica: costruzione dello spazio scenico” che l’Accademia di Belle Arti di L’Aquila ha dedicato a Ferdinand Wögerbauer e che durerà fino al 30 maggio. Un’occasione per guardare le foto di scena e modellini (realizzati dagli studenti dell’Accademia su quelli originari del Teatro dell’Opera di Salisburgo) di alcuni spettacoli per prosa e lirica che lo scenografo austriaco ha creato lungo la sua carriera.
Sono circa 20 anni che Wögerbauer e il light designer Joachim Barth, presente anch’egli in Accademia sia per l’inaugurazione che per il workshop che l’ha preceduta, lavorano con Peter Stein, “l’ultimo dei registi” secondo Umberto di Nino, uno dei professori della Scuola di Scenotecnica dell’Accademia che, dopo aver inviato lo scorso agosto 4 allievi a lavorare al “Flauto Magico” realizzato da Wögerbauer con Stein per il Teatro Alla Scala di Milano, ha organizzato l’evento espositivo affidato alla cura della tesista sul teatro tedesco Lucia Paolucci.
L’occasione è stata propizia per realizzare un’intervista a Ferdinand Wögerbauer e a Joachim Barth.
Vincitore del Premio Giovani “Vincenzo Cerami” per la Miglior scenografia per lo spettacolo “Der Park” scritto da Botho Strauss e diretto da Peter Stein nel 2015 per il Teatro di Roma, Wögerbauer, riferendosi a Strauss dice “lui è un autore degli anni ’70 - anni ’80 di Berlino. A me piace molto come lui guarda alle persone, perché lui scrive tanti libri che non sono testi teatrali, ma anche novelle”, come fossero flash di idee su persone che incontra. La sua scenografia non ha risentito di quella che Stein aveva per l’esordio alla Schaubühne a Berlino negli anni ’80 perché, dice, “il ritmo dello spettacolo è stato molto chiaro. Abbiamo cercato di approfittarci di qualche soluzione della struttura della scena che funzionava a Berlino, trasformata in un altro sistema teatrale” visto che la Schaubühne e il Teatro Argentina sono diversi come luoghi. “Abbiamo cercato una sintesi. Perché in questo testo teatrale contano gli attori. Io ho cercato cosa fare: quando queste figure come Oberon e Titania si confrontano con una città dei nostri tempi è un’idea geniale, di questa Arcadia del periodo di Shakespeare, dove quasi l’Arcadia è il simbolo del Paradiso, questo paesaggio della natura in equilibrio.” Sebbene, dice “Con gli spazi e le possibilità siamo stati limitati. Si comincia a trovare dei collegamenti.” E aggiunge: “Con loro ho cercato una soluzione per una tournée”, soprattutto perché il Teatro di Roma aveva anche un problema economico.
Com’è lavorare con Peter Stein? Come vi relazionate alle sue opere teatrali lunghissime? “Der Park” durava 4 ore e mezzo…
F.W. Questo è poco! “Demoni” era lungo, “Wallenstein” era lungo e “Faust” era un po’ più lungo. Quello è dove era lungo!
J.B.: “Faust” 21 ore.
F.W.: Questo è del 2000. Tutto il “Faust”, 1 e 2, senza tagli. Questo era un sogno di Peter da realizzare. Questo sogno esisteva in lui già da una decina di anni prima e poi con il finanziamento dell’Expo [di Hannover, ndr], con i soldi di Berlino, con i soldi di Vienna, con i soldi…
J.B.: di televisione…
F.W.: di Vodafone… é stato messo in piedi un finanziamento per questo “Faust” completo…
J.B.: integrale…
F.W.: Presentato in 2 giorni, tutto: dal sabato pomeriggio fino a domenica a mezzanotte.
J.B.: Vuol dire uno spettacolo per settimana. Sabato, domenica e il resto preparazione, preparazione, riposo…
Come vi siete organizzati per questi spettacoli?
F. W.: Joachim era il direttore tecnico, produttore dello spettacolo. Spettacolo con 54 tir!
J.B.: 55!
F.W.: 55! C’erano due scenografi all’epoca per “Faust”: per “Faust 1” e per “Faust 2”. Io ho lavorato su “Faust 1”. Era una preparazione di un anno e mezzo, poi con le prove di un anno lo spettacolo viveva un altro anno. Quello sono progetti che non so… io non conosco un altro progetto di questo genere in Europa in questo periodo in cui vivo io. Perché è partito da zero, poi ha fondato teatro, macchinisti, lavoratori: lavoratori scenici, lavoratori per i costumi… L’unica cosa che esisteva erano i soldi, il resto è stato necessariamente organizzato.
Quale delle vostre opere teatrali vi sentite più soddisfatti di aver realizzato?
F.W.: Non c’è una risposta a questa domanda perché il principio, secondo me, è che quando le cose vanno bene esiste una certa soddisfazione, ma nello stesso momento è accompagnata da questo lato in cui non è stato risolto dove si sperava. Non so come vedi tu la situazione? [rivolto a Joachim, ndr]
J.B. “Demoni” era un bel spettacolo, no? Quale spettacolo era più bello?... No, non funziona.
Penso che il motivo sia che sono tutte opere vostre e quindi le amate tutte.
F.W.: No, perché sono opere diverse. E’ difficile di comparare su quale valore si decide ‘questo è un bello spettacolo’. Il migliore ha avuto due mesi di prova felici, con tanti sorrisi. Bello! Avere due mesi di prova dura, bello! Ogni spettacolo ha una sua vita. Poi ogni testo porta un comportamento diverso: come si vive, come si gestisce una serata. Non so! Un valore è quando un’opera teatrale è stata accettata dal pubblico e lo spettacolo diventa con la sala quasi piena: questa è un soddisfazione, sì!
J.B.: Si può scegliere forse un punto che è l’attore, l’autore o il compositore. Shostakovich era meraviglioso. Abbiamo fatto altre opere che non mi piacciono così, ma questa è una cosa dell’autore e del compositore.
Per fare una buona scenografia esiste una regola?
F.W.: No! Sarà facile? Si fa così? No, perché di una lettura dello spettacolo, secondo me, come noi siamo costruiti, esiste per ogni spettacolo un’altra lettura, un’altra interpretazione. A me non mi interessa quasi di usare uno ‘stile’, uno stile di scenografia per mettere su uno spettacolo. No! A me piace scoprire una possibilità di mille per ogni spettacolo perché questo è anche divertente, così si è riempito anche il mio mondo ricco e le mie esperienze diventano ricche.
Come lavorate?
F.W.: E’ un misto perché è un team dove esistono le situazioni, dove qualcuno è più concreto, esiste una sicurezza, dove le domande sono aperte, come posso avvicinarmici e vive della coesistenza del lavoro insieme, perché le idee, quelle che esistono all’inizio non è detto che siano le idee finali. Una cosa, secondo me, importante in generale è di avere una relazione insieme a quel gruppo, una relazione in buono e in male, in momenti in cui non si è per niente carino l’uno sull’altro e non perdere il collegamento, quello dove siamo contenti e felici insieme, quello di dividere tutti questi lati della strada. Quella crescita della relazione è collegata almeno con lo sviluppo: così un testo teatrale, così l’opera lirica. E’ sempre lo stesso meccanismo. Si parte sperando di aver trovato una strada e si cerca di seguire quella strada e non è detto che si arrivi a quel punto che ci si aspettava all’inizio. La soddisfazione alla fine è di aver trovato di meglio di quella situazione. Di non bloccarsi in un punto.
Voi lavorare a livello internazionale in Italia, Austria, Germania…
J.B.: Russia, Svezia, Francia…
F.W.: America…
Pensate ci siano delle differenze con il teatro italiano?
F.W.: Tantissimo, semplicemente tantissimo.
J.B.: Ogni Paese ha la sua maniera, il suo sistema, la sua organizzazione e ci si deve sempre adattare al sistema del teatro dove si lavora. Non possiamo venire noi e mettere sul teatro il nostro sistema: non funziona perché ogni teatro ha la sua organizzazione, la sua maniera. È sempre differente, come la lingua.
Come vi siete formati? Chi sono stati i vostri maestri principali? E’ stata diversa la vostra formazione rispetto a quella che c’è oggi?
J.B.: Dal mio punto di vista era come io ho dato il libro oggi di Max Keller, che era anche un team in un piccolo teatro a Monaco, “Kammerspiele”, molto famoso in Germania, con regista Dieter Dorn, con scenografo Jürgen Rose e come light designer Max Keller. E loro per me hanno creato degli spettacoli che io non dimenticherò mai nella vita perché in questo tempo, quando l’ho visto la prima volta, era pazzesco.
F.W.: Come nello stesso periodo esiste da voi il teatro di Strehler, o anche Luca Ronconi, c’erano anche altri spettacoli che sono rimasti. Ma qualcosa sulla scuola diversa, ma sulla cultura diversa perché ogni Stato, praticamente, diciamo quando si parla adesso della prosa, lavora sulla lingua dello Stato. Ogni lingua ha la sua melodia, il suo comportamento, la sua espressione, la sua lettura. Ma per me anche Kammerspiele, Achim Freyer, così Schaubühne, per me prima anche il teatro tedesco e poi dipende pure un po’ dal punto, quando si aprono gli occhi e si scopre, oh!, esistono anche un Peduzzi che lavora con Chéreau in questo strano laboratorio un po’ fuori di Parigi in quel “Peer Gynt”, eccetera… Si è scoperto Il Piccolo di Strehler, molto dopo ho visto qualche documentazione di Ronconi quando lui ha fatto nei primi anni ’70 le Valchirie sull’ala dell’aereo… E’ un processo, come a scuola. Secondo me l’importante è di avere le fiamme e l’interesse, la curiosità. Serviva. E’ servita a noi questa voglia della curiosità così come serve anche alla giovane generazione di essere curiosi perché solo con la curiosità si alza la vista, diciamo, dalla scrivania verso l’orizzonte.
Nella locandina della mostra c’è scritto “So wenig wie möglich, soviel es braucht", cioè “il meno possibile, per quanto è necessario”. Perché?
F.W.: Genau! [trad. italiana = Esatto!, ndr] In primo luogo, alla prosa e alla lirica, secondo noi, conta l’umano/la persona, il carattere e il collegamento di questo Umano si presenta in un parco e con quel ponte questo si apre durante la serata in qualsiasi modo dell’interpretazione del teatro, in qualsiasi lingua del teatro. Lo stesso punto la lirica, quando la musica trasporta noi il canto e la persona che lo fa il canto. Quando loro sono bravi, cosa serve attorno? Serve solo un approccio, così abbiamo quasi un po’ completato l’immagine, ma non essere prepotente di metterci in più e in più perché c’è ancora l’idea, mettiamo quell’idea. È più giusto fare quello che serve e fermarsi prima di andare verso il manierismo o semplicemente la decorazione. Questo serve come a “Demoni”: per qualche scena serve solo un tavolo e una sedia, basta: non serve di più. Sì, un piccolo aiuto dietro di lui, ancora un piccolo pezzo di parete così lui non sta vuoto nello spazio scenico. Ma più di questo, come abbiamo visto, non serviva: è abbastanza. Joachim ha visti tanti, mille spettacoli, con tante mille varianti, mille altri artisti. Il suo mondo è ricco. Ma credo che questa non è una frase da me. Questo secondo me è una frase che accade per tante cose della vita. Cosa serve di, non so?, di riempire un regalo di formaggi di 50 diversi tipi? Io voglio comprarne solo uno. E’ meglio quando se ne ritrovano 10 e si sceglie fra i 10. E già basta.
J.B.: Ma questa è la scelta perché ci sono tanti formati, ma la scelta è: io voglio solo mangiarne 3. Quali sono i 3 per questa sera? E la scelta è di eliminare tutto quello che è possibile e rimane quello che è necessario e che funziona. E così con le luci, perché ci sono miliardi di possibilità, di colori, di intensità: fare una scelta a quello che è necessario e che funziona qui. E lasciar perdere tutto il resto.
Quale è l’opera teatrale alle quale state lavorando in questo momento? Quale sarà il vostro prossimo spettacolo?
F.W.: La Scala sarà il prossimo anno. Stein prepara un “Richard II” per Prato e questa è una produzione molto piccola perchè non hanno soldi. Fanno più o meno un po’ come quello di Pinter di due anni fa, “Il ritorno a casa”. Poi vediamo, per il momento un po’ di pausa perchè abbiamo fatto adesso un mezzo anno di percorso. Abbiamo cominciato con le prove agli inizi di giugno a Mosca, da Mosca si è spostato a Milano per il “Flauto”, dopo il “Flauto” siamo andati in Svezia per il “Figaro”, dopo il “Figaro” abbiamo fatto la ripresa del “Carlos” alla Scala.
Lo spettacolo nella società: intervista ad Alessandro D'Alatri
di Annalisa CiuffetelliUno dei modi per conoscere il ruolo dello spettacolo nella società è quello di farselo raccontare da chi lo crea. Quindi ho intervistato Alessandro D'Alatri, che mi ha parlato di crisi del teatro e del pubblico, di cinema e dei suoi progetti artistici.
L'ho incontrato il 23 novembre al Ridotto del Teatro Comunale di L'Aquila durante le prove per la ripresa di "China doll. Sotto scacco" [leggi l'articolo], terza pièce che il regista romano ha realizzato per il Teatro Stabile d'Abruzzo, dopo "Grand guignol all'italiana" dello scorso anno (entrambe da direttore artistico) e “Scene da un matrimonio” col quale, pochi mesi dopo il terremoto, ha rimesso in moto la macchina teatrale aquilana."Erano fermi, poveretti. – ricorda D’Alatri - Poi, quando abbiamo fatto le prove qui, c’erano le macerie qui intorno; cioè: era una roba terribile! E già oggi rivivere L’Aquila così, mi sembra una città viva". Fra 5 anni, dice, "questa sarà la città più bella d’Italia. La più moderna e la più antica! L'Aquila può, secondo me, ambire a tanto. Il mio rapporto qui con lo Stabile è d’amore per il teatro, ma fondamentalmente se io sto qui è d'amore per la città!".
Per gli spettacoli al Ridotto del Teatro Comunale, racconta, “paghiamo l’affitto quando veniamo. Quindi noi c’abbiamo già dei costi in più rispetto agli altri. Non c’abbiamo una ‘casa’. Siamo nella condizione di molti aquilani: siamo senza casa E il teatro è la ‘casa’ di una città, secondo me! Poi esauriamo gli abbonamenti in poche ore ogni anno. Questo significa che c’è la voglia di ricominciare”. Questo succede, dice, perchè L’Aquila ha una tradizione artistica e culturale importante, sebbene, secondo lui, poco raccontata.
Continua, poi, raccontando come lui si sta dando da fare: “stiamo facendo i miracoli senza il teatro, con pochi finanziamenti, in mezzo a mille difficoltà. L’altr’anno noi abbiamo portato uno spettacolo [“Adamo & Eva”, di M. Santopietro, ndr] che - non ci credeva nessuno! – è andato a New York! Abbiamo aperto quest’anno il festival di Todi [con "Il legame", regia G. Gobbi, ndr], l'altr'anno eravamo a Spoleto [con “Dupliners” di G. Sepe, ndr]; cioè: L’Aquila, l’Abruzzo, comincia a essere valutato". E aggiunge: "Io, l’altro giorno, quando ho avuto i risultati del Ministero ero felicissimo. Pensa il giorno che noi c’avremo il teatro che possiamo fare!".
Già, il Teatro Comunale! Per rinforzare e mettere in sicurezza le sue fondamenta hanno scavato una cavea enorme sotto la platea e, dice, “sotto alla platea ci sarà un altro teatro. Sarà una sala prove e uno spazio per reading, letture, presentazione di libri, mostre, … cioè diventa uno spazio ancora in più. Abbiamo fatto di necessità virtù: visto che c’è un sacrificio da fare, miglioriamolo il teatro! Sarà interamente cablato. Quindi diventerà un appuntamento importante non solo per la città, ma per tutta le regione e secondo me anche a livello nazionale. L’ambizione è di far essere L’Aquila un polo importante della cultura teatrale".
Sembra che abbia un’idea ben precisa di cosa sia il teatro e lo spettacolo nella società di oggi... sebbene il teatro sia in crisi.
"Il teatro è in forte crisi. Secondo me, lo dico come fruitore del teatro, come interprete del teatro, ma lo dico anche da Direttore di questo Stabile, io trovo che bisogna cominciare una nuova fase che riapra un processo di alfabetizzazione, perché il pubblico non è più abituato. Non è più abitato ad uscire di casa e a venire qui, mettersi in fila, sedersi in una platea e stare con altre centinaia di persone a vedere delle cose dal vivo perché chiaramente è più facile stare sul divano, rispondere al telefono mentre guardi un film, parlare con tua moglie o coi bambini e distrarti. Cioè: c’è stata una diseducazione nel tempo che chiaramente ha portato a una distanza dal teatro; c’è stato anche un teatro, secondo me, che non è stato molto accattivante nei confronti del pubblico; c’è stato il fatto che, per esempio, il teatro costa di più. Oggi con questa crisi che c’è se il teatro non vive di sussidi, anche se noi facessimo pieno tutte le sere, lascia perdere che qui [Ridotto del Teatro Comunale, ndr] è un teatrino piccolo, ma anche quando riavremo questo [l’adiacente Teatro Comunale, ndr], con i biglietti non paghi lo spettacolo, perché il teatro è colpito in maniera pesante con oneri sociali, iva, tasse, contributi, sicurezza… cioè una quantità di difficoltà che, voglio dire, sì, a Broadway funziona, ma infatti una poltrona costa $ 300. Vuoi mettere qui una poltrona € 300? E’ impensabile! E allora, è necessario e fondamentale che il teatro sia sostenuto perché comunque è uno spazio di civiltà. A teatro è raro che vedi la volgarità. Anche se messa in scena, probabilmente ha una funzione drammaturgica, ha una funziona taumaturgica anche, da quel punto di vista! Quindi trovo che secondo me oggi è compito di tutti noi che amiamo il teatro fare uno sforzo e scindere anche i teatri. Perché poi il teatro non è uno solo. E’ unico come spazio, come fruizione, però poi ci sono tante possibilità.”
Il discorso si sposta alla sua direzione artistica 2016-2017.
Quest'anno nella grande difficoltà economica in cui versavamo - perché avevamo grandissime difficoltà! - l’idea di costruire anche un segmento di comicità aveva una funzione: esattamente l’analisi che hai fatto tu nel tuo articolo [leggi l'articolo]; è perfetta: riportare il pubblico anche in qualche modo ad attraversare quella porta. Ricominciare a vedere che comunque c’è uno spazio".
Sebbene questa alfabetizzazione richieda dei sacrifici da parte degli amanti della prosa, dice D’Alatri "è importante invece dialogare con chi a teatro non va. E come ce lo porti dentro? Certo non offrendogli l'"Orestea" perché non ha le strutture culturali o le infrastrutture culturali per poterla comprendere. Allora ricominciare un processo di alfabetizzazione. E noi abbiamo diviso quest'anno la stagione in: stagione di prosa, uno spazio comicità che non pesa assolutamente nel discorso di valutazione del Ministero perché è fuori dai programmi ministeriali (quindi è una cosa che abbiamo fatto extra) e poi lo spazio teatro per ragazzi: riportare i bambini che sono il pubblico di domani. Rieducarli al teatro. Noi abbiamo fatto adesso la seconda rappresentazione: domenica c'è stato Pulcinella [“Pulginella contro tutti”, regia di A. Sparagna e S. Angelucci Marino, ndr]. Avevamo mezzo teatro pieno, che già è un risultato. Lo spettacolo precedente [“I musicanti di Brema”, regia di M. Fracassi, ndr] era quasi esaurito. Cioè: vedere i bambini a teatro divertirsi e riprendere confidenza con questo spazio, secondo me, è importante. Il cinema ormai lo puoi vedere ovunque, lo puoi vedere nel telefonino, lo puoi vedere sul computer, a casa, al cinema, dove vuoi, ma il teatro lo puoi vedere solo qui".
Il compito sia del teatro che del cinema, quindi, non è solo qualitativo, ma anche sociale.
Ricorda quando scrisse e diresse “Commediasexy” pensando al fatto che c’è un pubblico che va al cinema una volta all’anno, per il film di Natale. Voleva fare un film per attirare quel tipo di pubblico: “è il più alto incasso della mia carriera, ma non era quello l’obiettivo. L’obiettivo era stato interessare e far ridere su altre cose: era una satira sui costumi, soprattutto della politica in questo Paese che era praticamente sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lavorava in quella direzione.” Proprio mentre D’Alatri girava la storia dell’onorevole (interpretato da Paolo Bonolis) con una valletta (Elena Santarelli) scoppiò il caso vallettopoli, il che gli fece capire che era stava facendo la cosa giusta.
‘La qualità e basta’, afferma, non conta più: “Alla qualità devi abbinare dei percorsi, a mio avviso, che siano convincenti: riportare nella ‘casa’ dei cittadini, che è il teatro, un’abitudine di frequentazione, perché quando uno sta qui sta con gli altri. Questa città ha un bisogno pazzesco di avere un teatro. Hanno restaurato le chiese perché le chiese sono un luogo di incontro, ma il teatro secondo me è altrettanto importante perché c’ha la stessa funzione liturgica: c’ha un altare e c’ha una platea. E è un luogo di condivisione: si sta insieme, si respira insieme, ci si emoziona insieme. Questa città ha un bisogno di ricostruire non solo i palazzi - i palazzi poi alla fine si ricostruiscono! - ma le relazioni sociali!? E il teatro, secondo me, qui ha una funzione fondamentale. Io non vedo l’ora di poter dire ai cittadini “Ecco, questo è il vostro teatro!”
Le nuove regole ministeriali, dice, gli impongono come direttore artistico di fare solo una regia all’anno, mentre prima ne faceva tre in teatro: “Ho accettato questa cosa perché L’Aquila ha bisogno di qualcuno che lavori non per denaro. Io c’ho l’ultimo stipendio dello Stabile.” Quindi il lavoro è per la città: “lo faccio perché questa città ha bisogno, secondo me, di sentirsi amata. Ha bisogno di qualcuno che la prenda per mano e comunque dice: ‘Guarda che ce la stai facendo!’”.
Il TSA è ai primi posti della qualità nazionale secondo il Ministero, al punto da inorgoglire D’Alatri: “mi sembrava di aver vinto un’olimpiade!” Ma i traguardi sono altri: “io vorrei che L’Aquila fosse il primo! Le ambizioni sono queste. Io vorrei che questo posto diventasse di nuovo un centro di cultura.” Tanto più che, per lui, la città ha “delle potenzialità straordinarie, è piena di giovani, è piena di università. Ho lavorato un anno volontario, l’ho fatto qui con l’Accademia di Belle Arti, con la cattedra di Cinema, per riportare i giovani a venire a L’Aquila a credere in questa città.” Ma anche perché, dice, “l’affetto, l’amore per gli aquilani e per la città per me sono lo stipendio più bello.”
Passiamo poi al lavoro sul territorio regionale: “non ho portato nessuno da Roma. Io sto lavorando solo con il territorio. Le scenografie le fa uno scenotecnico qui a L’Aquila. I tessuti li ho comprati tutti qui. Qualsiasi cosa ho fatto, se tu vedi, sono tutti aquilani o abruzzesi, vengono da Pescara, eccetera.”
Ci tiene a precisare: “con le risorse che riceviamo dal FUS e da quel poco che ci arriva dalla Regione e dal Comune, non è che diventa un consumo solo dello Stabile dell’Aquila: 10 compagnie abruzzesi stanno lavorando aiutate da noi, prodotte da noi, co-prodotte, finanziate, cioè stiamo facendo lavorare.”
Si sta battendo da due anni per costruire una rete di circuitazione dei teatri abruzzesi come un fattore di ricchezza del territorio perchè le compagnie che vengono alloggiano, consumano, mangiano, comprano regali, si abbigliano, spendono qui. Racconta: “gli faccio conoscere il torrone, lo zafferano, ecc. Perché? Perché secondo me questo territorio c’ha una ricchezza straordinaria di ambiente, di natura, di cultura, di alimentazione, i vini...”
L’anno prossimo il suo mandato triennale termina e lui, crisi economica permettendo, vorrebbe coinvolgere sempre di più le aziende, le imprese, le industrie, le attività commerciali: “non sto chiedendo finanziamenti. Sto chiedendo soltanto come possiamo aiutare voi. La sinergia nasce offendo prima o tendendo la mano, non chiedendo.” Per esempio, immagina un Premio Zafferano, in omaggio alla tipica spezia colorata, allegra e delicata. E si stupisce ancora pensando al fatto che l’aerospaziale sia la prima industria d’Abruzzo e ce se ne vanti poco.
Comunque, conclude, “un teatro deve essere sempre sempre in attività. Ogni giorno che sta fermo è un giorno in perdita.”
La sensibilità artistica e sociale di D’Alatri affiora anche in altre attività.
A febbraio ha girato una serie-web, “La scuola della notte”: “collaboro da tre anni con il Premio Goliarda Sapienza che è un concorso di scrittura all’interno delle carceri. E per due anni sono stato tutor di un minore che ha vinto per tutti e due gli anni l’edizione.” La serie web viene dalla scrittura di questo ragazzo. Attualmente è tutor di un ragazzo con tre ergastoli che si trova a Saluzzo e che quest’anno è arrivato terzo. La serie web, racconta D’Alatri, è molto sperimentale, tra un video-games e un fumetto, e tutto (musiche, scenografie, foto di scena, catering,…) è stato realizzato da loro, trasformando per un mese il carcere minorile Beccaria in un teatro di posa e utilizzando gli effetti speciali perché è ambientata fuori. Ha coinvolto anche attori professionisti come Marco Palvetti e Mino Manni.
A giugno ha terminato le riprese di “The start up”, storia vera di un giovane del Corviale, periferia romana, che a 19 anni ha inventato un algoritmo che è stato immesso dentro il social “Egomnia”. Ha studiato a Milano alla Bocconi ed è riuscito a far conoscere il progetto. Non l’ha aiutato nessuno. Lo start-up l’ha fatto con gli ultimi 10 mila euro che avevano in famiglia (suo padre era pure disoccupato). Oggi “Egomnia” è una realtà con un milione di iscritti. 1500 aziende, di cui molte multinazionali, tra cui la Microsoft, hanno adottato questo sistema per le risorse umane. È stato valutato un miliardo di euro. Il ragazzo, che adesso ha 23 anni, è miliardario!
Come non pensare a giovani come Zuckerberg? E infatti, dice D’Alatri, “sembra una storia americana, non sembra l’Italia. Per dire, se ti rimbocchi le maniche forse ce la puoi fare.” E’ un progetto che serve a dare un po’ di speranza ai ragazzi perché c’è una valutazione matematica e dei punteggi attraverso cui vengono bypassate le spintarelle. Il film è realizzato con giovani attori. Il protagonista è abruzzese, di Pescara: “Si chiama Andrea Arcangeli. Attore fantastico, un giovane attore molto molto bravo. Di cui se ne parlerà in futuro secondo me. L’Abruzzo ce l’ho sempre intorno!”
Il film dovrebbe uscire in sala verso la fine marzo.
Da pochissimo, invece, ha finito di girare a Napoli un film per RAI 1, “In punta di piedi”, con Bianca Guaccero (che fa un’insegnante di danza), Cristiana Dall’Anna e Marco Palvetti. E’ la storia vera di una bambina, che si appassiona alla danza, ma il padre, camorrista, per paura di ritorsioni non la vuol far uscire di casa. La madre, stanca, fa arrestare le due cosche e manda la bambina all’estero sotto un falso nome per farle studiare danza. Oggi questa ragazzina è una delle étoile più importanti al mondo, ma non sappiamo qual è perché ha il nome straniero e vive in anonimato.
Non finisce qui. “A gennaio – anticipa D’Alatri - giro un cortometraggio scritto da chi ha vinto il Goliarda Sapienza l’anno scorso.” Sia quest’ultimo che la serie web usciranno nelle reti RAI.
Infine, “Sto preparando una serie internazionale per Netflix, con la produzione di RAI, TF1 Francia e Netflix. Quindi c’avrà una visione mondiale perché verrà distribuita in tutto il mondo. E’ un’altra storia molto bella perché è un thriller familiare. La famiglia oggi è diventata un luogo anche di sofferenza, non soltanto più di appoggio o di sostegno. Le peggiori cose che si leggono nei giornali nascono nelle famiglie, ormai. E quindi è un bellissimo viaggio dentro i rancori, le parti irrisolte delle relazioni affettive.”
E’ stato per me emozionante vedere in anteprima “mondiale” i trailer dei film “The start up” e “In punta di piedi”.
"China doll. Sotto scacco": dal genio di Mamet alla maestria di Pagni
di Annalisa CiuffetelliStoria d'amore di uno squalo in affari al quale hanno violato la donna, "China doll. Sotto scacco" è un testo geniale dell'autore statunitense contemporaneo David Mamet con l'interpretazione del notevole Eros Pagni nel ruolo di Mickey Ross e del promettente Roberto Caccioppoli in quello dell'assistente Carlson. Grande prova attoriale e registica, con ritmi ottimi e serrati. Necessari in un testo così intenso, nero come le pareti di fondo e pieno di furore come i quadri di scena (le tanto essenziali quanto curate scenografie sono di Matteo Soltanto). Divertente senza essere una vera e propria commedia, drammatico senza essere una tragedia, coinvolgente e abile nel lasciare col fiato sospeso senza essere un thriller. Pieno della tecnologia imperante al giorno d'oggi, eppure esclusivo teatro di parola. Con un inizio in media res e un finale che lascia presagire chissà quali peripezie, è un formidabile groviglio di telefonate chiuso in un bozzetto di vita esilarante che non necessita altro.
Ho deciso di fare un paio di domande al regista Alessandro D'Alatri. L'ho incontrato il 23 novembre scorso al Ridotto del Teatro Comunale di L'Aquila durante le prove dello spettacolo, che poi ho visto il giorno seguente (è andato in scena anche il 25) con un teatro in visibilio per uno di quei rari momenti di spettacolo che mettono d'accordo il pubblico e la critica.
"China doll. Sotto scacco" è un testo su "un percorso rivelatore dei meccanismi e delle logiche del mondo della politica, della finanza e della giustizia". Lei, nelle note di regia paragona il protagonista addirittura a un moderno King Lear. E' davvero così attuale Re Lear?
Eh, be' sì! Poi tocchi Shakespeare che per me in questo momento... sono 4 anni che sto facendo un lavoro di ricerca su Shakespeare… L’ho passato al setaccio. Ma sai, “King Lear” è un testo meraviglioso sulla follia del potere (foto a sinistra Matteo Soltanto).
A parte che c’abbiamo un’interpretazione straordinaria di Eros Pagni che è un gigante del teatro italiano, è uno degli ultimi, cioè: un professionismo e una dedizione, una vita intera dedicata al teatro. Io sono onorato. E’ la seconda volta che lavoro con Eros. Ho fatto un film con lui, il mio primo film, “Americano rosso”, quindi è stato bello rincontrarsi a ‘casa’ sua perché poi il teatro è casa sua.
C’ha un testo meraviglioso di Mamet che credo che sia uno dei drammaturghi più importanti della contemporaneità che ha sempre questa capacità di anticipare in qualche modo le atmosfere che circolano attraverso l’umanità. Questo testo è l’ultimo testo. I diritti li abbiamo presi quando stava debuttato a Broadway con Pacino. Quando l’ho letto so’ rimasto impressionato per la capacità, diciamo, quasi chirurgica di entrare dentro i meccanismi e le pieghe del mondo della finanza che oggi governa questo mondo: siamo tutti vittime di pensieri stabiliti in appartamenti, in uffici che noi non sapremo mai quali sono. Quindi questo backstage della finanza, dell’economia, del potere, della gestione della giustizia e quindi dell’ingiustizia, è bello vederlo sulla scena. Me ne sono innamorato subito. Ho fatto un lavoro nell’ombra perchè poi lo ha firmato Luca. Luca Barbareschi è colui che ha portato sempre Mamet in Italia. E’ stato il primo.
Per l’adattamento, ho fatto un grande lavoro. Io vivo in America gran parte della mia vita. Faccio su e giù con gli Stati Uniti. Mi sono sposato lì, c’ho mia figlia americana. Insomma, conosco molto bene la cultura americana. E il testo necessitava secondo me di un adattamento linguistico proprio, perché ci sono dei modi di dire per esempio che sono intraducibili. Già lo stesso titolo “China doll”, sarebbe la “bambola cinese”, ma non vuol dire niente perché è un modo di dire. La ‘bambola cinese’ è quando c’è un casino, quando c’è una confusione... Il sottotitolo italiano gliel’ho trovato che era “Sotto scacco”, quando sei nell’angolino in mezzo alla confusione e non sai più come uscirne. Questo è. È un termine militare. Nelle sigle militari quando stanno in un combattimento dicono “We are in a china doll”, ‘ci troviamo in una bambola cinese’, ‘stiamo dentro una situazione che probabilmente può finire molto male’. Questo è il senso. Ecco, era impossibile da tradurre. “Sotto scacco” forse era la cosa migliore come traduzione.
Lei ha visto la versione originale con Al Pacino?
L’ho vista a Broadway con Pacino. La cosa bella è che l’agente di Mamet è venuto all’Eliseo [la pièce ha debuttato al Teatro Eliseo di Roma dal 05 al 24 aprile scorsi, ndr] a vedere lo spettacolo e ci ha mandato una lettera bellissima dove era in copia anche Mamet (che poi è venuto recentemente a Roma in occasione del festival del cinema) dove ha detto che il nostro era migliore! Questo per noi è stato un privilegio perché poi Pacino, voglio dire, stiamo parlando di un mostro di attore, una capacità attoriale straordinaria. Però devo dire che l’adattamento italiano, secondo me, non fa rimpiangere quello americano, nel senso che sono molto contento di questo lavoro che poi è stato fatto di concerto chiaramente con gli attori sulla scena: abbiamo cercato sempre di renderlo il più possibile fruibile. E in questa analisi, esattamente come “King Lear”, c’ha dei momenti dove la tragedia si trasforma in ironia, in qualche modo, perché noi ridiamo sempre delle tragedie dell’umanità, cioè ci fa ridere la tegola che casca in testa al personaggio per strada; poi in realtà uno muore se gli cade una tegola in testa. Però la tragedia è comica, in qualche modo. Questo non è un testo comico, perciò l’ironia graffiante di Mamet prevale sempre tanto, cioè questo cinismo. E’ il trionfo del cinismo. Ed è il trionfo anche dell’ingiustizia.
Io credo che chi vede questo spettacolo, torna a casa, capisce una serie di meccanismi che sono estremamente contemporanei. Quest’uomo è un uomo che rappresenta figure che in questo momento della nostra epoca sono così prevalenti: Murdock, Trump diventato Presidente degli Stati Uniti, Berlusconi... cioè sono figure egocentriche. E riescono a vincere perché riescono a bucare la fantasia anche del popolo perché, poi, li vota la gente. Alcuni giudizi suoi sul votare, sulla democrazia, che sono nel testo, sono meravigliosi però da qual punto di vista è una riflessione importante su dove stiamo andando. E quando il teatro secondo me si fa interprete, anche attraverso i ‘classici’ - perché non è necessario che sia contemporaneo il teatro -, il teatro è un invito continuo alla riflessione. E’ un assorbimento attraverso la gestualità, attraverso l’esasperazione del tempo, perché poi il teatro c’ha un tempo chiuso: c’è un inizio e una fine. Ma in quella dilatazione secondo me ci sono spazi, anche per l’intrattenimento, perchè comunque io godo a teatro (non parlo solo del mio, ma io sono un grande consumatore di teatro) il teatro per me è uno spazio straordinario perché restituisce a mio avviso al pubblico quella capacità di essere anche protagonista di quello che sta avvenendo perché chiede la partecipazione, chiede una condivisione il teatro. E’ come quando si gioca da bambini che si stabiliscono quelle piccole regole: facciano che tu eri mamma e io sono papà e quindi da quel momento nel gioco tu sei mamma e io sono papa, tu sei l’americano e io sono il tedesco, tu sei l’indiamo e io sono il cowboy. Cioè: ci sono i ruoli. Il teatro stabilisce esattamente questo. E il pubblico accetta e diventa pubblico nel momento in cui accetta questa condizione. E allora a teatro magari, tu vedi un palcoscenico vuoto, vedi uno che dice che sta affogando nel mare: non c’è l’acqua, ma tu senti che sta affogando. E allora questo secondo me è la grande magia del teatro, che diventa la grande magia che da millenni ha il fascino della rappresentazione.
Il cinema non è rappresentazione, il cinema è racconto visivo, cioè preconfezionato in qualche modo; se c’è il mare c’è il mare, se c’è un palazzo è un palazzo. il teatro invece c’ha questa condizione straordinaria per cui fa in modo che vedi quello che non c’è. E quindi chiede una partecipazione.
E è la stessa cosa che chiede la religione, la mistica: chiede una fiducia incondizionata.
E quindi è questo che funziona. E’ una magia irripetibile. Io trovo che per me che mi divido fra tante forme diverse espressive, questo per me la è parte più ‘ossigenante’, perché il teatro è ossigenazione proprio. L’attore è attore. Non è montato, non c’è la moviola. L’attore lavora senza rete. Io vado a teatro perchè amo gli attori. Al teatro vedo gli attori. Al cinema vedo l’elaborazione dell’attore, Per cui è un fascino straordinario.
”China doll” (foto a destra, Tsa) è l’ultimo testo che ho fatto, ma è uno dei testi che mi ha dato di più perché innanzitutto è un testo contemporaneo per cui ti chiede di essere nell’oggi nella logica anche di quello che succederà. Pensa: noi abbiamo cominciato questo spettacolo che Trump non era Presidente, oggi è Presidente degli Stati Uniti. E quindi, voglio dire, già vedi come il potere è in evoluzione continua nel rapporto con il popolo, con la massa, con il mondo. Uomini come Mickey: pochissimi sono quelli che contano nelle vite dell’umanità.
Trovo che il teatro ha questa funzione, più del cinema. Infatti sta riprendendo uno scettro secondo me. Io credo che il teatro nonostante le difficoltà ha una marcia in più rispetto alle arti performative.
Come la musica dal vivo: adesso è diventata importante, il disco non lo compra più nessuno. Però la musica dal vivo la vanno a sentire tutti. Perché succede questo? Perché c’è quella cosa che succede lì in quel momento, quell’unicità che è irripetibile: se non l’hai visto, peccato!, perché ti sei perso una cosa. Cioè, c’è qualcosa che non puoi perdere. Questo chiaramente quando gli spettacoli funzionano. Quando non funzionano è meglio perderli.
Il teatro e la crisi economica: intervista a Santopietro e Giangiuliani
di Annalisa CiuffetelliLa società nella quale uno vive si riflette nel teatro coevo. Infatti per ogni stagione, e in maniera spontanea, vengono messi in scena una certa quantità di testi legati tematicamente (sebbene allestiti dalle varie compagnie indipendentemente l'uno dall'altro) ed è così che ultimamente troviamo sul palco, o in procinto di debutto, pièce dedicate al tema della crisi economico-sociale.
Il teatro di prosa odierno sfiora quindi il teatro sociale (che comunque, per natura propria del genere, essendo ambientato oggigiorno e scritto appositamente, ha tutt'altro taglio) e la sua rabbia, mettendo in scena testi dedicati alla crisi economica e ai suoi effetti, scritti da drammaturghi contemporanei o da autori giovani.
Non è qui il caso di aprire la parentesi sul perché - da tempo si lamentava l'assenza di nuovi autori e d'altro canto il famigerato "Decreto Valore Cultura" del 2014 poneva l'attenzione anche sulla nuova drammaturgia – e quanto ci sia di casuale o meno, fatto sta che nuovi autori, di tanto in tanto, spuntano fuori, sebbene, nella maggior parte dei casi siano anche registi delle loro stesse creazioni.
Ci sono poi i testi liminari, cioè legati al tema, in questo caso economico, ma che non rientrano nella categoria sociale della crisi, i quali, però, con la loro presenza contribuiscono al discorso, come ad esempio, l'inusuale 'ballata' biografica ambientata in oltre un secolo "Lehman trilogy" di Stefano Massini, allestita da Luca Ronconi.
Nel primo caso, cioè quello dei drammaturghi contemporanei riallestiti, troviamo "Il prezzo" (regia di Massimo Popolizio, che lo interpreta insieme a Umberto Orsini) e "Morte di un commesso viaggiatore" (regia e ruolo principale di Elio De Capitani) entrambi di Arthur Miller e, in parte, "Lo zoo di vetro" (regia di Arturo Cirillo) di Tennessee Wiliams. Nel secondo caso, quello dei giovani autori, rientra "Per ciò che è stato" scritto e diretto da Mauro Santopietro (che è anche tra gli interpreti).
È proprio su quest’ultimo che voglio porre la mia attenzione.
Nelle note di regia Santopietro scrive: "Credo fermamente in un teatro civile [...] Sono convinto si debba tornare a raccontare delle storie 'popolari' alle quali il pubblico possa partecipare in maniera attiva, cercando un vero e proprio dialogo capace di moltiplicare le narrazioni per similitudini e confronto".
Alessandro D’Alatri, direttore artistico del TSA, lo ha presentato così:
"Giovedì 27 aprile, alle ore 21, e venerdì 28 aprile, alle ore 17:30, presso il Ridotto del Teatro Comunale, c'è una nuova produzione del Teatro Stabile d'Abruzzo. Sono molto orgoglioso di questa produzione perché è un testo inedito, una novità italiana che siamo orgogliosi di poter tenere a battesimo: 'Per ciò che è stato', regia di Mauro Santopietro, con Antonello Fassari, Alessia Giangiuliani e Mauro Santopietro. Due parole vorrei aggiungere perché Santopietro e Alessia Giangiuliani l’altr’anno sono stati un prodotto dallo Stabile d'Abruzzo con 'Adamo & Eva'. Sapete tutti che è un testo meraviglioso che è stato poi portato dal Teatro Stabile d'Abruzzo a New York. Abbiamo avuto una rassegna internazionale di critiche meravigliose [...] Questo proprio perché il Teatro Stabile d'Abruzzo deve fare la sua vocazione: la promozione dei giovani, dei nuovi talenti, della nuova drammaturgia e per sedimentare sempre di più una vocazione che dev’essere quella del teatro pubblico".
Ho incontrato l'autore-regista-interprete Mauro Santopietro e l'attrice Alessia Giangiuliani. Studi importanti alle spalle: uno, romano, diplomato all’Accademia D'Arte Drammatica "Silvio D’Amico", l’altra, aquilana, alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e poi seminari innumerevoli, per entrambi, con i maggiori maestri europei. Notevoli le esperienze teatrali: Santopietro da anni interpreta al Silvano Toti Globe Theatre di Roma drammi shakespeariane per la regia di Loredana Scaramella, alternandoli con testi contemporanei su regie proprie o di Luca Ronconi, Luca Barbareschi e Alessandro Averone e poi fiction tv; la Giangiuliani diretta, tra classici e contemporanei, da registi come Gigi Proietti, Leo Muscato e soprattutto Mauro Avogadro e Carmelo Rifici ha calcato i maggiori teatri della penisola approdando anche in tv con Dario Fo e Giorgio Albertazzi.
Ma che cos'è questo nuovo spettacolo "Per ciò che è stato"? Santopietro me lo racconta così.
È sicuramente una sfida. Io non so, forse riprendo spunto dalle ultime parole del direttore artistico Alessandro D'Alatri, che ringrazio tantissimo perché è stato lui nelle note di regia - usiamo un termine stimolatore in qualche modo – perché è stato lui che con consigli, con critiche e con veramente vari pensieri mi ha stimolato a scrivere questo testo. Riprendo le sue parole perché è vero che lo stato del teatro italiano è in forte crisi, come sono in crisi tutte le imprese, come sono in crisi tutti i settori - forse, chissà, ci dicono oggi che stiamo uscendo dalla crisi – ma quello che vuole raccontare questo testo è quello che si sta raccontando qui oggi: è come poi dietro qualsiasi difficoltà la volontà delle persone, degli esseri umani fanno sì che queste difficoltà si possano superare. Quindi anche nel testo 'Per ciò che è stato', aldilà di quella che sarà la fine di questo imprenditore, prendendo spunto dalle tantissime storie di imprenditori dell'Italia di oggi, quello che vorrei far passare è che dietro la figura dell'imprenditore c'è la figura di un essere umano che con la sua volontà, la sua determinazione, cerca di risolvere in tutti i modi i problemi.
E poi aggiunge...
E devo ringraziare anche Antonello Fassari che ha letto il testo e mi ha veramente riempito di complimenti e accetta questa sfida con grande passione. E anche lui è dimostrazione del fatto che poi il teatro è forse l'espressione più grande artistica dell'umanità legata al contemporaneo proprio agito. Ma questa espressione si riesce, come dire?, ad abbracciarla solamente che c'è una grandissima umanità dietro.
Possiamo pensare ad un lieto fine?
SANTOPIETRO: Vorrei mantenerlo un po' così. Non si vuole fare morale, non si vuole lasciare nessun insegnamento se non quello, appunto, di risvegliare quella che è l'umanità delle persone sapendo che l'umanità delle persone può cambiare davvero il corso degli eventi e può cambiare in un qualsiasi sistema di crisi. Nella fattispecie questo imprenditore non finisce bene, ma quello che vogliamo far passare in un testo di denuncia - sarà un testo di denuncia perché parla di cavilli burocratici, perché parla di quanto l'entità dello stato italiano schiaccia, riesce a schiacciare quelle che sono le imprese, quelle che sono le coscienze socio-politiche di tutti noi - poi alla fine esiste e resiste questa volontà. Se questa volontà fosse risvegliata allora si potrebbe ricreare una nuova condizione di impresa a tutto tondo.
Anche l'anno scorso nello spettacolo "Adamo & Eva" c'era Alessia Giangiuliani...
SANTOPIETRO: Alessia devo dire che è fondamentale per tutta quella che è in questo momento la mia carriera artistica perché io scrivo e va bene, ma lei è molto specifica nei consigli e riesce a darmi veramente una grandissima mano. Come interprete io non posso dire nulla se non che è un'attrice strepitosa. In "Adamo & Eva" è stata fondamentale. Lo stata e lo sarà ancor di più in "Per ciò che è stato". E questa continuità di lavoro, difficile da tenere perché poi comunque lei è una testa molto più matematica, io invece sono una testa più fantasiosa. Poi ecco quando si incontrano fantasia e concretezza, non che lei sia priva di fantasia e di artisticità, anzi ne ha tantissima anche lei, però quando si sposano bene questi due aspetti allora ne nasce qualcosa che è la crasi tra quello che è quotidiano e poetico. E così anche il testo, parlando della scrittura, ha un passaggio attraverso un nodo drammatico - e sarà anche un nodo di regia - da un linguaggio molto fruibile perché quotidiano, a un linguaggio invece poetico, che sarà sempre estremamente fruibile, che è il risultano, la risultante, di un aspetto per me fondamentale nel teatro oggi.
Quali sono i vostri personaggi nello spettacolo?
GIANGIULIANI: Io sono Elena. Sono la figlia di questo imprenditore. Elena ha un rapporto molto complesso con suo padre nel senso che ha un’ammirazione incredibile per quest'uomo, ma in qualche modo rimane estremamente delusa dallo scarso sostegno che riceve a un certo punto da suo padre. E quindi in qualche maniera entrambi i personaggi, sia quello della figlia che quello dell’imprenditore, ma anche gli altri due personaggi che sono nel testo (un banchiere, amante della figlia, e l’altro figlio dell’imprenditore) sono in qualche modo tutti personaggi schiacciati da dalle dinamiche burocratiche e quindi in qualche modo lo schiacciamento che si riceve da queste difficoltà che vengono da parte dello Stato mescolate alle difficoltà umane nelle loro relazioni li porteranno a dei momenti di rottura per ognuno davvero molto molto forti e quindi a un ribaltamento nelle relazioni e a una slavina di eventi di difficile controllo.
SANTOPIETRO: Io faccio ancora fatica a descrivere i personaggi. Quello che posso intanto descrivere è sicuramente il lavoro di drammaturgia che è stato fatto e il lavoro che dovrò fare di regia. Sui personaggi faccio veramente molta fatica. Posso dire degli aggettivi per quanto riguarda gli altri personaggi. Allora, il personaggio di Fausto che è l'imprenditore, parte come carnefice in qualche modo e poi invece diviene vittima, non solo di se stesso e vittima nei confronti dello stato, vittima nei confronti dei familiari, vittima perché non è stato capace, e se ne rende conto nel corso e degli eventi, di salvaguardare quello che è in qualche modo il ruolo di padre all’interno di questa famiglia, prima che il ruolo di aziendalista, imprenditore o capo di un'azienda. Per quanto riguarda il ruolo di Mattia che è il figlio, Mattia è un ragazzo che anziché preferire studiare è entrato subito in azienda come operaio e lavora a tutti gli effetti come operaio in quest’azienda. Però è capace di tenere le fila di tutto quanto il rapporto tra operari e la figura di Fausto, come imprenditore, riuscendo a scendere anche a compromessi rispetto ad alcune situazioni un po’ compromettenti. Per quanto riguarda invece il ruolo di Paolo, che invece è il banchiere, Paolo lavora in banca ma è innamorato di Elena. Ora chi lavora in banca non può, ahimè, stringere rapporti troppo stretti con delle aziende legate al territorio, tanto è vero che chi lavora in banca spesso viene traferito da un luogo a un altro proprio perché non può avere relazioni di sorta. E è un banchiere, quindi cura i propri interessi che sono sia di natura privata che, in questo caso, anche di natura economica.
Ultima domanda: com'è stata la vostra esperienza dell'anno scorso in America con lo spettacolo "Adamo & Eva"? Trovate delle differenze tra l’America e L'Italia?
SANTOPIETRO: L'esperienza è stata bellissima, devo dire. Abbiamo partecipato a questo festival di teatro italiano, l'unico che c'è a New York, in America...
GIANGIULIANI: ...dal titolo "In scena!", diretto da Laura Caparrotti e Donatella Codonesu che ci hanno appunto invitato. È stata una grande gioia nel senso che sono pochi gli spettacoli invitati a rappresentati la prosa italiana lì negli Stati Uniti. Una grande emozione. Siamo stati ospiti in bellissimi teatri, con uno splendido pubblico. Chiaramente il pubblico era facilitato dalla presenza di sovra-titoli. Però era una bella sfida perché la scrittura più diffusa nel teatro americano è un po' diversa da quella che usa Mauro, nel senso che è un pochino più lineare. Quindi portare lì questo tipo di scrittura così poetica e con una cifra meno quotidiana in qualche maniera era una sfida e invece ci sembra che sia stata accolta molto bene.
SANTOPIETRO: Le differenze tra il teatro in America e il teatro in Europa sono nette e marcate. Lì esiste un sistema totalmente privato della cultura che cammina da sé. Qui in Italia invece siamo affezionati ad un forma ancora pubblica, pro e contro rispetto a quelle che sono le criticità oggi del sistema sia in Italia che in America. Potrei aprire una discussione lunga veramente ore, ma mi fermo qui!