A salvare Renzi è la sinistra che il premier ha tentato in ogni modo di marginalizzare.
Sta appeso ai 17 mila e 429 voti che hanno permesso a Beppe Sala di vincere la sfida di Milano, infatti, il futuro del premier-segretario. Se Parisi avesse vinto, strappando al Partito Democratico la capitale economica del paese - e ci è andato davvero vicino - oggi parleremmo d'altro, di dimissioni forse o, comunque, della disfatta di Renzi. Non è andata così.
Sala, il più renziano dei candidati, ha vinto la sfida con Parisi, dando respiro al Governo, almeno fino ad ottobre. E ha vinto con il voto della sinistra; lo scrivevamo già prima del ballottaggio: nelle ultime settimane, l'uomo di Expo ha giocato la sua campagna elettorale sulla (presunta) continuità con l'amministrazione arancione dell'uscente Giuliano Pisapia. Ha parlato alla sinistra, con un linguaggio di sinistra. Non è un caso che Basilio Rizzo, candidato al primo turno con 'Milano in Comune', abbia dichiarato il suo sostegno per Sala, a tre giorni dal ballottaggio; non è un caso che ieri sera, accanto al neo sindaco, ci fosse Paolo Limonta, braccio destro di Pisapia in questi cinque anni; non è un caso che ieri, all'ora di pranzo, Sala si sia presentato all'ex op Paolo Pini di Milano, alla festa per i 40 anni di Radio Popolare, storica emittente della sinistra milanese.
E' con quei voti, i voti della sinistra, che l'uomo di Renzi ha vinto al ballottaggio. Milano, la sinistra arancione e plurale che ha dato gambe e fiato alla primavera di Pisapia, non ha voluto disperdere cinque anni di buona amministrazione, non ha voluto consegnare la città alla destra e per questo, con un malcelato mal di pancia, ha infine scelto di sostenere Sala. E torniamo al paradosso da cui siamo partiti.
Inutile girarci intorno, il premier segretario - e dunque, il Pd - escono malconci dal ballottaggio. Ancora da rimarginare la ferita di Napoli, lo schiaffo preso a Roma, seppure prevedibile, è stato più forte di quanto si potesse immaginare. Per non dire di Torino: la sconfitta di Piero Fassino è soprendente, e dolorosa. E non può certo essere derubricata a "questione locale": il sindaco uscente paga l'ascesa del Movimento 5 Stelle che, tra primo e secondo turno, ha mostrato di essersi oramai radicato nei territori, sul piano locale insomma, oltre che a livello nazionale. Se fino a ieri il Movimento di Grillo sembrava un contenitore, più che un partito, una cornice entro cui iscrivere il disagio e la disaffezione di cittadini di diversa estrazione sociale e politica, disillusi da una politica nazionale percepita come lontana e distratta, oggi M5S compie un ulteriore passo in avanti, raccogliendo consensi anche al livello locale, tra le difficoltà delle periferie e della sonnacchiosa provincia italiana, disorientata dalla crisi.
I pentastellati vincono 19 ballottaggi su 20, e i numeri dicono più di tante parole. Raccolgono consensi a destra come a sinistra, in quel bacino di voti 'dimenticato' - appunto - da Renzi, impegnato a dar forma ad un partito centristra, orientato verso la destra moderata, un partito unico, della Nazione come da titoli giornalistici, l'altra faccia di una Legge elettorale e di una Riforma Costituzionale che disegnano un bipolarismo mascherato che vorrebbe isolare la sinistra radicale, così come la destra e che, al contrario, sta radicalizzando soltanto il dissenso verso il premier e la giovane classe dirigente del Pd.
Eccoci all'altro motivo per cui non è possibile derubricare la sconfitta di Fassino a questione locale e che sottende anche all'affermazione - oltre le aspettative - di Virginia Raggi: il voto d'opposizione a Renzi - in particolare della sinistra - che, come detto, non ha trovato terreno fertile a Milano, ma, di certo, a Roma e Torino. Un presagio piuttosto fosco per il premier, se è vero che ha trasformato il referendum costituzionale di ottobre in una sorta di verifica di Governo, soggettivizzando una questione politica di capitale importanza - la riforma della legge fondamentale dello Stato - che meriterebbe ben altro confronto, e di merito.
Anche la vittoria di Virginio Merola a Bologna - primo sindaco della città felsinea ad ottenere la riconferma, dal 1993 ad oggi - non è certo un segnale di vitalità, per il Presidente del Consiglio e per i democrat. Merola ha scelto la Bolognina, per l'ultimo comizio elettorale; ha firmato per il referendum che chiede l'abolizione del jobs act, scatenando l'ira del partito; e ha lanciato un avvertimento, stanotte, appresa la notizia della riconferma: 'Bella Ciao' ad accoglierlo, Merola ha invitato Renzi "ad occuparsi del partito", ribadendo che "a Bologna, il Pd, è stato unito e ha saputo interpretare una linea del centrosinistra unita e non del partito fai da te". Come è accaduto a Cagliari d'altra parte, con la riconferma al primo turno dell'uscente Massimo Zedda, l'ultimo sindaco arancione.
Un orientamento piuttosto chiaro, quello indicato dagli elettori del Partito Democratico, e sarebbe sciocco, per Renzi, far finta di non vedere; far finta di non capire che la vittoria di Roberto Dipiazza a Trieste, il capoluogo del Friuli Venezia Giulia, la Regione governata dalla vice segretaria democrat Debora Serracchiani, ha molto da dire sul Governo e le sue scelte.
Renzi è uomo fortunato, però, oltre che spregiudicato: c'è ancora tempo per cambiare - di nuovo - verso, anche perché il centrodestra è uscito a pezzi dal ballottaggio, fuori competizione a Napoli, bastonato a Bologna con la candidata della Lega di Salvini, sconfitto a Milano, seppur d'un soffio. Ancora i 17 mila e 429 voti di distacco tra Sala e Parisi, a determinare la politica nazionale: avesse vinto Parisi, il centrodestra avrebbe potuto ritrovarsi, unito, oltre il dibattito su leadership e guida della coalizione; al contrario, Salvini non ha perso occasione per scagliarsi avverso la scelta di un candidato, a suo dire, troppo moderato.
Eppure, è proprio l'altro Matteo il grande sconfitto dalla tornata elettorale di giugno: a Bologna come a Milano, a Roma (con Giorgia Meloni) come a Varese che, a sorpresa, il centrosinistra ha strappato proprio alla Lega, al governo della città da un quarto di secolo. Per non parlare di Forza Italia, resiste solo a Milano, e Fratelli d'Italia, scomparso dalla scena politica nazionale.
Torniamo così al Movimento 5 Stelle, il secondo polo oramai, se si può ancora parlare di poli contrapposti. M5S è alla prova di maturità: amministrare Torino e, soprattutto, Roma, in questo momento storico, potrebbe segnare il destino dei pentastellati. In un senso o nell'altro.
C'è poi l'incognita De Magistris, confermato a Napoli con percentuali bulgare (ha sfiorato il 70%): l'ex magistrato, a caldo, ha già parlato da leader di un movimento nazionale, seppure ancora in nuce. Movimenti dal basso, comitati, forze sociali e di disobbedienza civile, d'altra parte, guardano proprio a Napoli come esperienza virtuosa di Governo, alla ricerca di una rappresentanza istituzionale che non hanno ancora trovato, con gli occhi alla Spagna e al percorso politico di Podemos. Una incognita, dicevamo, perché sarà difficile, comunque, replicare una esperienza molto particolare come quella partenopea. Al momento, tuttavia, De Magistris è l'unica, vera, novità del panorama politico nazionale, l'unica strada percorribile per una sinistra che, fuori dalle coalizioni democratiche, non riesce ancora a trovare una via.
Zunino (Giovani Democratici): "Il vero problema si chiamano realtà territoriali"
"Il Pd ha un problema e si chiamano realtà territoriali" dice il segretario nazionale dei Giovani democratici Mattia Zunino, intervenuto a un forum sulla riforma cosituzionale tenutosi ieri all'Aquila. "Sui livelli territoriali ci sono problemi importanti sui quali bisogna mettere mano".
E l'Abruzzo?
In questo contesto nazionale, l'Abruzzo racconta una 'storia' decisamente in controtendenza. Il Partito Democratico, infatti, si dimostra vincente e cala il poker: sbanca al primo turno a Francavilla al Mare e, al ballottaggio, si riprende Roseto degli Abruzzi, tiene Lanciano e conquista Vasto, seppure all'ultimo respiro e per una manciata di voti.
Vittorie diverse in contesti diversi: se a Roseto - qui si è consumato lo strappo alle primarie di centrosinistra, con la candidata di Luciano D'Alfonso, la dirigente regionale Rosaria Ciancione, battuta da Sabatino Di Girolamo, poi eletto sindaco, sostenuto da Tommaso Ginoble - e a Francavilla non c'è stata discussione, a Lanciano il candidato di centrodestra, Errico D'Amico, ad un soffio da Mario Pupillo al primo turno, ha pagato a carissimo prezzo l'apparentamento con Tonia Paolucci e la destra radicale che, in caso di vittoria, avrebbe significato, tra l'altro, ritrovarsi Casa Pound in Consiglio comunale, nella città resistente Medaglia d'Oro al valor militare.
A Vasto, invece, la sfida tra centrodestra e centrosinistra si è risolta con un testa a testa all'ultimo voto che ha premiato Francesco Menna, uomo della segreteria dell'assessore Silvio Paolucci.
Sta di fatto che il centrosinistra ha vinto e il centrodestra, al contrario, è scomparso dalla scena. "La vittoria del centrosinistra e del Pd in Abruzzo è netta e inequivocabile", ha sottolineato Luciano D'Alfonso. Che ha intestato anche al suo Governo la vittoria elettorale: "Dopo due anni di amministrazione, la maggioranza di governo della Regione Abruzzo risulta fortemente confermata dagli esiti del doppio turno elettorale. L’affermazione a Vasto, Lanciano e Roseto dei candidati sindaci del Pd, Francesco Menna, Mario Pupillo e Sabatino Di Girolamo, che si aggiungono allo straordinario successo di Antonio Luciani a Francavilla, così come la vittoria di Annamaria Casini a Sulmona, sostenuta con un ruolo importante dell’assessore Andrea Gerosolimo da uno schieramento di forze riconducibili nella quasi totalità alla maggioranza di governo nazionale e regionale, costituiscono un chiaro segnale di fiducia verso le ambizioni della Regione".
Ha citato anche Sulmona, il Governatore. Seppure la vicenda politica della città d'Ovidio abbia raccontato ben altra storia. Annamaria Casini, infatti, si è imposta con oltre 30 punti percentuale di vantaggio sullo sfidante, Bruno Di Masci, sostenuto dal Partito Democratico e, a seguito del primo turno, da Forza Italia. Ha vinto con il sostegno di sei liste civiche, imbastite di personalità politiche di centrodestra e centrosinistra dall'assessore regionale Andrea Gerosolimo che ora, al tavolo dell'esecutivo regionale, siede con un jolly in mano. E ha già iniziato a mischiare le carte, a 48 ore dal voto, lanciando una bordata sul Piano di riordino sanitario che penalizza - a suo dire - le aree interne della Regione: su questa strada, nei prossimi giorni, potrebbe trovare sostegni per ora impensabili.
Gerosolimo sta giocando la sua partita proprio sulle aree interne, ponendosi in contrapposizione con gli esponenti politici della costa e accreditandosi, così, come ago della bilancia politica in seno alla maggioranza D'Alfonso. Stessa tecnica utilizzata per strappare un assessorato, a poco più di un anno dalle elezioni. Il successo di Sulmona, evidentemente, permette a Gerosolimo di chiedere ancora qualcosa in più. E D'Alfonso, pare averlo già capito: "Sulmona è una emblematica questione a sé stante, poiché si tratta di una esplosione crescente di una nuova tradizione elettorale che va oltre il civismo, considerata la disintegrazione delle esperienze politiche tradizionali, che nel '900 abbiamo chiamato partiti", ha riconosciuto il Governatore. "I Partiti, quando si rendono pali (o tubi) vengono fotografati come inutili dalla cittadinanza, al contrario se sono capaci di essere reti, diventano fondamentali produttori di idee e di risorse della democrazia che pensa, progetta, realizza e progredisce. A Sulmona i pali dei Partiti hanno consegnato il passo alle persone e alla capacità delle persone di aggregarsi e coltivare emozioni ed esperienze collettive. E' importante ricominciare a fare governo territoriale nella storica e meritevole Citta' di Capograssi. La Regione ha volontà di competizione positiva".
Competizione positiva, proprio così.